28 anni dopo è al cinema. C'è voluto un sacco di tempo tanto che la progressione cronologica dei titoli è passata dai giorni alle settimane fino ad arrivare agli anni saltando a pie' pari i mesi. E malgrado quella che per gli amanti di questa specifica saga horror è stata un'attesa spasmodica, a conti fatti è andata bene. Siamo nel territorio accidentato dei sé, però lo slittare dai mesi agli anni ha permesso a Danny Boyle e Alex Garland di riprendere in mano la loro creatura (dopo essersi limitati a produrre il comunque buon seguito datato 2007 diretto da Juan Carlos Fresnadillo) lasciando decantare e fermentare tanto le tematiche della pellicola, quanto il genere degli zombie movie.

Una tipologia di film che nel 2002, anno di uscita di 28 giorni dopo, stava cominciando la sua rinascita dopo che, grazie ai videogiochi di Resident Evil, si era ricominciato a registrare un certo interesse per avventure a base di sopravvissuti che cercano di scappare dalle grinfie dei non-morti (con tutte le loro varianti, anche in termini di chilometri orari della loro deambulazione). L'altro lato della medaglia è che siamo finiti per vedere ogni possibile declinazione del e sul tema tanto che, per merito (o colpa?) di The Walking Dead e tutti i suoi spin-off, gli zombi sono stati trasformati in grande intrattenimento per tutta la famiglia.
Dalla rivoluzione alla riflessione allegorica
Impossibile, dunque, mantenere lo stesso approccio registico e narrativo di 28 giorni dopo che, oltre ad aver portato la doverosa ventata di aria fresca, è stato girato con uno stile "guerrilla" che oggi avrebbe poco senso: Danny Boyle è stato un pioniere nel riprendere il film con delle Mini DV e delle Canon XL1s, ma oggi il digitale è molto più alla portata di qualsiasi tasca e, soprattutto, anche il più scrauso degli smartphone ha una qualità d'immagine superiore rispetto a delle camere digitali di oltre vent'anni fa.

Va anche detto che negli ultimi due decenni abbondanti, sono accaduti alcuni fatti storici con cui è impossibile non fare i conti: la Brexit e il Covid hanno giocato la loro parte nel far sì che 28 Anni Dopo diventasse quello che è (anche) diventato, una riflessione allegorica sul rapporto che lega l'Inghilterra al resto d'Europa. E l'aspetto più esaltante di questa riflessione fatta dal nostro dinamico duo si riscontra sull'incredibile verve della messa in scena di un filmmaker che, meritatamente, ha un Oscar per la Miglior regia ottenuto però con uno dei suoi film più laccati e leziosi, The Millionaire.
La didascalia iniziale, oltre a ribadire che 28 settimane dopo è comunque canonico nella mitologia del franchise, evidenzia che ormai il virus e la quarantena sono un "privilegio esclusivo" di quell'isola che è stata Impero e che, da sempre, flirta a modo suo col fare e non fare parte della comunità europea.
28 anni dopo sfiora il capolavoro?
Il risultato finale? Se non è un capolavoro poco ci manca. E lo è anche perché Boyle, che è inglese figlio d'immigrati irlandesi, ragiona con lucidità e incredibile freschezza con la storia elaborata dal sodale Garland. Alla soglia dei 70 anni, il filmmaker gira con la stessa grinta e inventiva di quando ne aveva trenta di meno ed esordiva al cinema con quel Piccoli Omicidi tra Amici, splendido antipasto di quel Trainspotting che avrebbe fatto la storia. E - fermo restando il discorso sulle tecniche di ripresa fatto qualche riga fa, ci sono fior fiore di testimonianze su come si sia divertito a sperimentare girando quasi integralmente con degli iPhone 15 Pro (chiaramente potenziati con delle apparecchiature professionali) così da stare il più possibile dentro alla storia insieme ai personaggi.
Guardare 28 anni dopo, ascoltare 28 anni dopo, col suo sound design preciso al millimetro e la splendida colonna sonora degli Young Fathers (che sostituiscono il John Murphy dei due film precedenti) è galvanizzante così come, negli anni novanta, era galvanizzante accendere a caso MTV e trovare un video Made in Britain dei Chemical Brothers, dei Prodigy, di Tricky, dei Placebo, di Aphex Twin. La perfetta unione di sonorità innovative e di video capaci di afferrare pienamente l'essenza di una congiuntura in cui quell'iconica rete TV era anche in gran parte sperimentazione artistica e di linguaggio. Che si originava principalmente in UK per poi contaminare tutto il mondo o quasi. 28 anni dopo grida This is England dalla prima all'ultima inquadratura e lo fa sia dal punto di vista dell'estetica di un regista che proprio negli anni '90 ha fatto sì che, quando ancora esistevano i negozi di dischi, uscisse una delle colonne sonore più popolari del periodo, quella di Trainspotting appunto, ma anche come critica a quello che il Regno Unito è diventato negli ultimi anni.
L'Impero inglese che non esiste più
Non è un caso che in 28 anni dopo si parli di un'isola quasi del tutto staccata da un'altra isola. E non è un caso che nel lungometraggio ci siano così tanti riferimenti alla Croce di San Giorgio, alla vittoria contro i francesi nella Battaglia di Azincourt in cui gli arcieri inglesi svolsero un ruolo fondamentale. In un Inghilterra derelitta, lasciata a marcire nel suo stesso brodo dal resto d'Europa e del mondo, non resta altro che crogiolarsi nella grandezza di un passato che non esiste più da un pezzo. La comunità di Holy Island si vede, probabilmente, come la diretta progenie di quegli inglesi che fecero la storia e la leggenda ad Azincourt.

E questo ancorarsi ai tempi che furono passa anche tramite un ritualismo pagano antecedente a qualsiasi credenza cristiana tanto che, con tutta probabilità, la comunità dove vive il piccolo Spike del bravissimo esordiente Alfie Williams potrebbe andare d'accordissimo con quella che vive a Summerisle in The Wicker Man, vera e propria gemma del cinema folkhorror inglese. Ritualismo presente anche nel rito di passaggio all'età adulta che proprio Spike si ritrova, suo malgrado, a dover esperire.
Che non avviene di certo nella serata tribale al pub di Holy Island dove la sua prima escursione sulla terra ferma viene magnificata, ingigantita e quasi del tutto inventata dal padre, ma nel momento in cui deve fare i conti con la morte e l'importanza del ricordare che, anche quando non sono più tra noi, dobbiamo continuare ad amare le persone alle quali abbiamo voluto bene finché erano in vita.
I figli di Jimmy Savile
Ed eccoci al momento più spinoso di tutto il film, il finale. Che con la TV ha sempre a che fare. Il ritorno in scena di quel Jimmy, ormai cresciuto, che avevamo lasciato in fuga dagli infetti nel prologo, dopo che suo padre, un pastore (di anime, non di pecore) aveva accolto la fine del mondo all'interno della sua chiesa non prima di avergli donato il suo crocifisso. Che ritroviamo al collo del ragazzo ormai cresciuto, anche se capovolto.
Un finale che ha spiazzato molta gente per via del look esibito dal personaggio di Jack O'Connell e dai componenti della sua "tribù". La spiegazione è molto semplice e del tutto allineata col concetto di rielaborazione di un passato glorioso che tanto glorioso non è. Nelle battute iniziali di 28 anni dopo, le stesse che abbiamo visto già dal primo trailer, Jimmy sta guardando i Teletubbies insieme ad altri bambini. Poco prima che tutto andasse a rotoli. È probabile che per lui, prima dell'apocalisse, la TV avesse una certa importanza, così come le persone che l'animavano. E se il tempo, in Inghilterra, si è fermato al 2002, non c'è nulla di assurdo nel constatare come un bambino che si sia ritrovato a crescere in quella peculiare situazione abbia deciso di conformarsi all'estetica di una vera e propria leggenda della TV inglese, uno che per il Regno Unito è stato qualcosa a metà fra Pippo Baudo, Mike Bongiorno, Renzo Arbore e Tonio Cartonio: Jimmy Savile. Una celebrità nota anche per la sua attività di filantropo, oltre che di Dj e conduttore. Amico della Tatcher e della famiglia Reale. Uno che, fra i tanti, è stato anche protagonista di uno show intitolato Jim'll Fix It in cui i bambini venivano incoraggiati a scrivere delle lettere esprimendo un desiderio che volevano vedrà esaudito entro la fine della puntata. Chissà, magari per il Jimmy del film il sogno era quello di vedere Savile rimettere ordine alla pesima situazione in cui versava il paese a causa del virus.

Però, come si è scoperto soprattutto dopo la sua morte, Jimmy Savile era anche uno spietato predatore sessuale che ha abusato di centinaia di persone di ogni genere ed età, che, approfittando del suo status di benefattore del sistema sanitario, dei suoi agganci e del sostanziale lasciappassare in ogni ospedale del Regno Unito, avrebbe abusato anche di degenti senza disdegnare d'indulgere anche in atti di necrofilia. Trovate tutto raccontato in un documentario in due parti proposto su Netflix, I crimini di Jimmy Savile. Un vaso di Pandora che è stato scoperchiato solo dopo la morte di Savile, risalente al 2011. Ma nel mondo di 28 anni dopo, nulla di tutto questo è mai accaduto, sir Jimmy Crystal non ne sa nulla e cullarsi nel ricordo glorioso di un Jimmy Savile patrimonio nazionale una maniera per restare ancorato a un passato che non esiste più. Come il trionfo ad Azincourt.