A partire dal suo primo, grande successo, Bloody Sunday (Orso d'Oro al Festival di Berlino 2002), cruda ricostruzione della "domenica di sangue" del 1972, il regista londinese Paul Greengrass ha legato il proprio nome, oltre che alla fortunata saga action di Jason Bourne, a drammi ad alta tensione basati su vicende realmente accadute: United 93, ad oggi il suo film più acclamato, rievoca l'odissea di uno degli aerei dirottati dai terroristi di Al Qaida l'11 settembre 2001, mentre Captain Phillips racconta l'arrembaggio subito da una nave da carico americana presso le coste della Somalia. Con 22 luglio, presentato in concorso alla settantacinquesima edizione del Festival di Venezia e programmato per una distribuzione su Netflix dal prossimo ottobre, Greengrass si dedica a un altro famigerato capitolo della cronaca degli ultimi anni, in assoluto uno fra i più sanguinari: il doppio attentato compiuto in Norvegia, il 22 luglio 2011, dall'estremista di destra Anders Breivik, che avrebbe portato alla morte di settantasette persone.
22 luglio 2011: romanzo di due stragi
Dopo un breve antefatto, la prima parte di 22 luglio porta in scena gli attentati messi in atto nell'arco di poche ore da Anders Breivik, interpretato nel film da Anders Danielsen Lie: l'esplosione di un'autobomba nel centro di Oslo, di fronte al palazzo occupato dall'allora Primo Ministro norvegese, Jens Stoltenberg, e l'eccidio compiuto dallo stesso Breivik sull'isola di Utøya, durante un seminario a tema politico organizzato dal Partito Laburista, nel quale erano coinvolti centinaia di ragazzi. Paul Greengrass rievoca il massacro adottando come punto di vista privilegiato proprio quello di Breivik, con uno stile crudo che riesce a innescare discreti livelli di tensione, ma evitando al tempo stesso la tentazione di 'spettacolarizzare' più del dovuto un episodio tanto tragico, fra i più scioccanti atti di terrorismo dell'epoca contemporanea.
A questa prima sezione del film, basato in parte sul libro Uno di noi di Asne Seierstad (la sceneggiatura è stata curata da Greengrass) e sviluppato nell'arco di quasi due ore e mezza, fa seguito una netta biforcazione della trama. Da un lato, infatti, accompagniamo il personaggio di Breivik, la sua preparazione al processo e il suo rapporto con l'avvocato a capo della sua difesa, Geir Lippestad (Jon Øigarden): e su questo versante, 22 luglio si limita ad illustrare il fanatismo integralista e xenofobo di Breivik, motivato dal desiderio di 'proteggere' l'Europa dal contatto con altre popolazioni e altre culture (e i riferimenti al presente sono talmente lampanti che Greengrass non ha certo bisogno di rimarcarli ulteriormente).
Un dramma schematico sul terrorismo nella nostra epoca
Il secondo percorso narrativo del film riguarda invece uno dei partecipanti al seminario di Utøya: Viljar Hanssen, giovane attivista impersonato da Jonas Strand Gravli. Rimasto gravemente ferito nella sparatoria, con la perdita di un occhio, frammenti di proiettile nel cervello e gravi difficoltà motorie, Viljar viene proposto come l'emblema delle vittime di Anders Breivik, minato tanto nel fisico, quanto nel morale (nel corso dell'attentato, infatti, rimarranno uccisi i suoi due migliori amici). E da questa prospettiva, 22 luglio si trasforma nella cronaca della rivalsa di Viljar: non solo il suo faticoso ma strenuo recupero, sostenuto dall'affetto dei propri familiari, ma anche la 'resurrezione' di uno spirito aperto e progressista, diametralmente opposto alla selvaggia ideologia nazionalista e xenofoba di Breivik.
Se, per fortuna, l'opera di Paul Greengrass non si abbandona mai a eccessi di retorica, e sfiora i toni patetici senza però premere troppo sul pedale dell'enfasi a tutti i costi, il vero limite di 22 luglio è da rintracciare nel suo schematismo di fondo. Perché per quanto non sia certo facile approcciarsi a temi quali la violenza e il terrorismo negli anni Duemila, è pur vero che Greengrass sceglie la soluzione più semplice e lineare: un manicheismo più che comprensibile, data la natura della materia trattata, ma che in fondo non aggiunge particolare spessore ad un film molto tradizionale nell'impostazione e nella scrittura. Con il risultato di dar vita a un prodotto 'medio' che rischia tuttavia di sfigurare all'interno del concorso della Mostra; soprattutto se posto in competizione diretta con un film, il magnifico Vox Lux di Brady Corbet, capace di affrontare tematiche simili, terrorismo in primis, in maniera infinitamente più originale, stimolante e provocatoria.
Movieplayer.it
3.0/5