Sono due i film coreani in uscita in Italia in questo mese di aprile, entrambi presentati in concorso all'ultimo Festival di Cannes, entrambi opera di registi tra i più importanti del panorama coreano contemporaneo: se Poetry di Lee Chang-dong affronta temi difficili come il senso di colpa, la malattia e la morte giocando sottotraccia e puntando sul non detto di una narrazione in cui l'orrore, sempre presente, è controbilanciato dalla forza d'animo della protagonista, The Housemaid di Im Sang-soo è più diretto ed esplicito, ma anche più nichilista. Remake dell'omonimo classico del 1960, che era diretto da un regista come Kim Ki-young (considerato un nume tutelare dell'intera cinematografia sudcoreana contemporanea) il film colpisce per come riesce ad essere al tempo stesso violento e visivamente elegante, ma soprattutto per la grande portata politica del suo discorso: l'odissea della protagonista, la sua progressiva umiliazione e la sua vendetta sono descritte senza mezzi termini, con un erotismo anche crudo ed esplicito, ma soprattutto dando vita a una potente rappresentazione di una società classista fin nelle sue fondamenta, in cui l'estremo gesto di Eun-y rappresenta anche l'unica ribellione possibile.
Di tutto ciò ha parlato il regista nella conferenza stampa con cui ha presentato il suo film, in uscita a fine mese, ai giornalisti romani.
Nel film si avverte una forte tensione politica, lo scontro tra la protagonista e i suoi padroni è uno scontro di classe. E' una lettura corretta?
Sì. In Corea non è facile avere finanziamenti per un film con questi temi, così ho dovuto inserirli in un film in cui ci fosse dell'erotismo e della suspence. Il tema, in realtà, è politico e sociale, e per questo il film ha ricevuto diverse critiche dai giornali di destra.
Il film originale riguardava il punto di vista del padrone, descriveva il suo senso di colpa e la sua paura. Cinquant'anni fa in Corea c'era una nuova borghesia che stava emergendo, ora invece l'alta borghesia è consolidata, e fa quello che vuole senza sensi di colpa. La differenza tra ricchi e poveri è ancora più marcata, l'alta società è ancora più violenta nel suo umiliare ed emarginare la gente povera.
Il film può essere considerato un'opera sul gelo dei sentimenti, e la presenza costante della neve sembra simboleggiare proprio questo. Anche il vino sembra una metafora, un simbolo ammaliante che sta quasi a supplire l'incapacità di sedurre...
In realtà la presenza della neve è un caso, abbiamo girato a gennaio perché il film doveva essere pronto per Cannes, e in quel periodo da noi nevica abbondantemente. Il vino è più che altro un simbolo di quell'alta borghesia coreana che vuole imitare i modelli aristocratici europei. Il protagonista maschile è anche l'unico uomo in un film dominato dalle donne, lui vorrebbe essere un re ma è incapace di comunicare con loro. Ma la sua ricchezza fa sì che non ne abbia bisogno.
Parlando di collegamenti con l'Europa, nel modo di fare del protagonista sembra quasi di vedere un collegamento con l'immagine degli ufficiali nazisti (suona il pianoforte, ha un'apparenza colta). Come mai?
Più che con i nazisti, il riferimento è a quegli europei (e occidentali in genere) che hanno guadagnato ricchezze colonizzando i popoli dell'Africa e dell'Asia. Loro ora vivono nel lusso, ma i colonizzati sono rimasti in gran parte nella miseria: il terrorismo ha origine proprio in questo, ma si continua a non capire le motivazioni di questi popoli. Anche il gesto finale della protagonista è una dimostrazione di come diventa una persona quando viene umiliata. Quella è la sua vendetta.
Infatti la storia ha una portata universale, chi ha il potere lo ha sempre usato per umiliare gli altri. L'11 settembre è stato un esempio di ciò che può significare la reazione di chi non ha il potere. Nel film, solo la bambina capisce davvero il comportamento della protagonista: nel film ci sono due domestiche, ma l'altra lo è anche mentalmente, mentre Eun-y no. Lei in realtà non è affatto una domestica: non piegherà mai la testa, e il suo ultimo gesto sta lì a dimostrarlo. La bambina vede chiaramente questo: il mio nuovo film, non a caso, sarà incentrato proprio su questo personaggio, diventato adulto.
Nel film del 1960 la cameriera è una specie di vamp che mette in crisi le sicurezze di lui: qui queste sicurezze, al contrario, non sono neanche scalfite. E' cambiato qualcosa nei modelli sociali della generazione dei trentenni coreani?
I trentenni, quelli della mia generazione, hanno combattuto contro il regime militare, hanno agitato bandiere di libertà, ma ora sono parte dell'establishment. Spendono più che possono e non disdegnano il golf durante i weekend. La loro spinta propulsiva si è esaurita.
L'idea che il pubblico ha del cinema coreano è quella di uno stile molto rarefatto, mentre questo film è al contrario carnale, barocco. Il suo modo di fare cinema si discosta da quello di molti suoi colleghi?
Nei festival europei arrivano due tipi di film asiatici: quelli esotici, visivamente carini, interessanti, in genere molto graditi ai critici; e quelli che raccontano storie dure, che le persone non sarebbero neanche in grado di immaginare. Io faccio rientrare il mio film nella seconda categoria: la mia è la storia di un'umiliazione che diventa una ragione di attacco. Non voglio che il mio sia visto come un film esotico, non voglio avvantaggiarmi da quest'aura che hanno alcuni film orientali.
Intanto è da dire che questo remake non è stata una mia idea, è stato il produttore a volerlo e io sono subentrato solo in un secondo momento. Per essere del tutto sincero, non ho mai amato molto il film originale, ma ho visto questo remake come la possibilità di parlare di classi sociali in modo molto diretto. Il concetto di classe, nel XXI secolo, appare come un concetto vecchio, superato, un retaggio del marxismo: io invece penso che, nella società odierna, le classi sociali abbiano ancora una grande importanza. Il mio è un remake che si rifà un po' a quello che Martin Scorsese fece con il suo Cape Fear - Il promontorio della paura: prendere un 30% della storia originale, e svilupparla in altre direzioni. Siccome l'originale era comunque un classico, sapevo che sarei andato incontro a molte critiche: ma la mia è stata una specie di sfida, rivolta soprattutto al regista dell'originale, nello sviluppare un mio discorso che fosse diverso dal suo.