A pochi mesi dalla polemica sull'esclusione dell'italiano Pupi Avati dalla selezione ufficiale di Venezia 67, abbiamo incontrato alla Casa del Cinema a Roma il regista de La casa dalle finestre che ridono che, rievocando l'immeritata bocciatura, ci ha raccontato la genesi di Una sconfinata giovinezza. Come per la maggior parte delle opere precedenti, anche questa favola melanconica e nostalgica, ambientata a Roma e Bologna e girata in parte nei teatri di posa a Cinecittà, trae ispirazione dalle riflessioni del regista sul proprio passato. Questa volta è infatti un'infanzia autobiografica a fare da cornice alla storia del film, una ballata che racconta, tra flashback dalle atmosfere da horror metafisico e realistici quadretti familiari, la battaglia di una coppia di fronte al morbo dell'Alzheimer. Avati mette da parte quella volontà di denuncia che aveva caratterizzato il recente Il figlio più piccolo e firma un dramma emozionale e delicato su una patologia che spesso divide le famiglie. Come nel film citato si schiera dalla parte dei deboli, ma riesce a evitare la strada comoda e meno rischiosa della lacrima a tutti i costi facendo dell'equilibrio sentimentale il punto forte del film.
Diversamente dal passato, rappresentato da un curriculum di ben 41 opere, Pupi Avati ha deciso questa volta di mettere in scena la storia di un amore coniugale, percorrendo una strada narrativa originale e poco battuta nel cinema italiano. Nei panni dei protagonisti due bravissimi Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri, che ultimamente vediamo sullo schermo in veste di attrice solo nelle opere di Avati, i quali ci hanno parlato della loro esperienza sul set, accanto a un regista che sa svelare la sua umanità, rispondendo al telefono alla moglie preoccupata dell'accoglienza del film durante la conferenza stampa, oltre a una professionalità che ormai non ha più bisogno di conferme. A presentare il film, distribuito con determinazione dalla 01 Distribution in oltre 200 sale, insieme agli attori principali e al regista, i redivivi Serena Grandi, Lino Capolicchio e Manuela Morabito e Antonio Avati, produttore con Rai Cinema.
Come nasce questa storia e come mai ha al centro un tema così delicato?Pupi Avati: La ragione per cui mi sono occupato di questa patologia è il rapporto col tempo. Oggi un 72enne si definisce un anziano, uno che sta in una zona di rientro a casa, un momento in cui dismette la nostalgia per la propria giovinezza. La regressione, tipica di questa patologia, s'impone anche a chi è vicino: ognuno di noi ha in famiglia un parente affetto da Alzheimer. Se guardo indietro nel mio cinema, molti miei film guardano con affettuoso rammarico al mio passato imputandomi la colpa di aver vissuto la giovinezza con troppa precipitazione, vi si avverte la necessità di ritornare su quei luoghi. Questa forma di nostalgia ora riguarda più la mia infanzia perché si sta svegliando in me in modo sempre più prepotente il bambino di 8/10 anni che sono stato e che credevo di aver dimenticato.
Quindi molti elementi sono autobiografici, ci fa degli esempi?
Pupi Avati: Il gioco dei ciclisti viene da mio fratello, che era tifoso di Gastone Nencini. Il cane si chiama Perché come il cane di mio padre. E' vera anche la storia del brillante cercato da mia zia nel catorcio in cui i miei trovarono la morte nell'illusione di trovarlo. La lotta tra i ragazzini riguarda la mia iniziazione sessuale, un momento in cui ho trovato la prima ebbrezza... Quando ci siamo accorti che mio suocero iniziava a confondere il presente col passato, mi sono molto incuriosito e ho studiato questa patologia, ne ho parlato con tanti esperti, mi sono documentato e mi sono detto che avevo finalmente un pretesto dopo 41 film per parlare di una storia d'amore, che non è solo tra moglie e marito ma anche tra moglie e figlio. Vado orgoglioso di questo sviluppo perché c'è la coincidenza della malattia con l'amore e il medicinale che un medico prescrive dovrebbe sempre essere l'amore perché adesso nella nostra società non si abbandonano solo gli animali ma anche i parenti e questo dovrebbe destare perplessità.
Ciononostante la gioventù è raccontata nel suo film con un elemento magico, quasi come in un fantasy...
Pupi Avati: C'è una sorta di sortilegio nella mia infanzia che credo appartenga a ognuno di noi, qualcosa di straordinario, prezioso e irripetibile. Non c'è niente di eccezionale: un incidente stradale, gli zii in campagna, la storia del brillante sono tutta una serie di rievocazioni della mia infanzia, che è comunque molto comune. Chi conosce il mio cinema può riconoscere le mie radici, che rivendico e dalle quali non intendo prendere distanza.
Pupi Avati: Questa è una storia nella quale volevo arrivare alla resurrezione attraverso la mia infanzia, perché è l'unico momento della nostra vita in cui tutto è compatibile e m'inteneriva l'idea che un uomo cercasse di resuscitare la donna amata con una impudenza che solo il cinema permette. Io penso che il cinema debba essere utilizzato come uno strumento elastico che esce dall'asfittico mondo culturale nel quale gran parte del cinema comico si agita in cerca di un'angolazione. L'horror è la tensione che si produce nei confronti dello sconosciuto, è il buio della mente. C'è un momento del film che amo follemente e che è lo sguardo smarrito di Lino dopo che ha picchiato la moglie perché è esaustivo, racconta di questa storia il passato, il presente e il futuro.
Un altro tema affrontato coraggiosamente nel film e raro nella nostra cinematografia è la descrizione di un amore coniugale. E' stata rischiosa questa scelta?
Pupi Avati: Io non ho dati statistici da mettere in campo, ma sono sicuro che i matrimoni durevoli in Italia siano la maggioranza. Che il cinema non lo testimoni è vero, ma che la realtà sia un'altra anche. Io sono sposato con la stessa signora da 46 anni, con la quale litigo ogni giorno e alla quale sono costantemente riconoscente perché mi tiene sempre in uno stato di agitazione perenne a cui non potrei rinunciare. Nel tempo da passione il matrimonio diventa affetto, ma penso con terrore all'idea che la persona che più mi conosce non dovesse più esserci: sarebbe insopportabile!
Come considera la polemica veneziana a posteriori?
Pupi Avati: Non ho visto i film in concorso perché non amo andare al cinema, non perché abbia voluto discriminare la Mostra di Venezia. C'è ben di peggio per un regista che leggere che il suo film è stato "bocciato" anche se in quel momento sono rimasto sbigottito. Se mi sono comportato così è stato anche per una sofferenza post Il papà di Giovanna. Questo è un film alternativo rispetto al cinema di oggi: tutti vogliono andare a vedere commedie, basta guardare gli incassi. La prudenza di 01 Distribution nel numero delle copie ci fa capire questa situazione. Io sono convinto che ci sia un potenziale bacino di utenza che non voglia vedere film che necessariamente facciano sganasciare dalle risate.
Il film non induce alla commozione facile, ma emoziona senza arrivare alle lacrime. Avete avuto difficoltà a mantenere questo equilibrio?
Pupi Avati: Potevamo scivolare sul terreno sdrucciolevole della produzione di emozioni, ma abbiamo affrontato questa storia con un grande pudore interpretativo, cercando d'interiorizzarla e senza specularvi. Sono sicuro che il pubblico che vedrà questo film ha una relazione con questa malattia, che è la malattia dei parenti. E' un'esperienza che si può accogliere come un episodio umano, non volevo mostrarne la disperazione. Questo "non premere troppo approfittandosene"
ci ha portati a un film che non verrà visto nell'indifferenza. Abbiamo cercato d'interpretarlo "sottoemozionandoci".
Antonio Avati (produttore): Avevo proposto Fabrizio a mio fratello, ma non si trattava di una scoperta proprio come in passato per Silvio Orlando e Antonio Albanese. Il mercato cinematografico italiano dei protagonisti possibili poi non è così ampio.
Pupi Avati: Questo è anche il mio primo film in cui i due protagonisti sono belli!
I protagonisti sono due personaggi molto spigolosi, gli attori hanno avuto dei punti di riferimento per entrare in questi ruoli?
Fabrizio Bentivoglio: Difficilmente prendo come modelli i personaggi del cinema, ma mi rifaccio sempre a persone reali. In questo caso mi sono rifatto alla mia infanzia e a quella di Avati, che mi ha raccontato.
Francesca Neri: Anch'io non ho avuto particolari ispirazioni, ma abbiamo vissuto il set e conosciuto una tenerezza che ci ha accomunati.
Signora Neri come ha vissuto quest'esperienza che la vede invecchiata e nei panni di un personaggio femminile molto emblematico?
Francesca Neri: Questo è uno di quei ruoli che un'attrice vorrebbe fare e l'invecchiamento fa parte della complessità di questa parte anche se è minimo perché è facile invecchiarsi di soli 10 anni. Siamo partiti da un dettaglio fisico per poi trovare un modo di essere Chicca. Ho lavorato sulla dignità di questa donna perché credo che amare suo marito faccia parte di una maturità che ho sentito dal primo giorno sul set. E' stato bello ritrovarmi con Fabrizio e vivere tre settimane insieme è stato come fare un viaggio d'amore, con i disagi, con le paure... Ne sono uscita con un senso poetico di questa storia, che racconta una malattia devastante e soprattutto la trasformazione di un amore.
Lei è anche produttrice e la vediamo sempre meno al cinema come attrice. Cosa la stimola nell'interpretare solo film di Avati?
Francesca Neri: Penso che stiamo facendo un pezzetto di strada insieme. Ci siamo incontrati tardi, ma ho l'impressione che, come un giovanissimo regista, lui mi conosca molto bene e sia in sintonia con me e con quello che potrei fare e dare al cinema. Con Pupi mi sento protetta come a casa, ma anche stimolata. Lui mi fa sentire di crescere ogni volta un po' di più come donna e come attrice e questo è prezioso per me.
Il protagonista Lino è un giornalista sportivo immerso in un'ambientazione familiare molto tradizionale. Anche questa una scelta poco comune...
Pupi Avati: Nel film vedete la classica famigliola organizzata dove tutti sono piazzati e in cui si appalesa un membro esterno come un giornalista sportivo: il suo matrimonio con Chicca è disdicevole! Ho pensato che dovesse essere un giornalista perché è uno che usa la parola e non potrebbe farne a meno.
Signor Bentivoglio lei come si è preparato per il suo personaggio?
Fabrizio Bentivoglio: Quello di Lino è un ruolo particolare. Quando Pupi mi ha contattato mi aveva detto che aveva un "pacco dono per un attore", e lo è stato per me, ma era anche una patata bollente da trattare in maniera molto delicata. Questo è stato il mio obiettivo: trattare tutto con grande amore e sensibilità ritrovandomi bambino, girando a Cinecittà, cosa di cui sono stato onorato. E' stato come quelle domeniche pomeriggio in cui da piccoli si gioca con gli amichetti con giochi autoctoni, pre-Playstation, prima ancora del subbuteo. Il nocciolo della storia vibrava già nella sceneggiatura, che mi emozionava. Potrebbe essere spiegato quasi come una favola per bambini: Lino e Chicca si amano, ma non hanno bambini così un giorno Lino decide di trasformarsi in un bambino che Chicca si ritrova in braccio.
Lino Capolicchio: Quando Pupi mi ha telefonato, mi ha detto che era dispiaciuto, ma aveva una parte per me. Io non so come definirlo perché lui è un affabulatore impressionante e dire di no, cosa che ho fatto sempre nella mia carriera, a lui non è possibile. La cosa più emozionante per me sul set è stato l'incontro con Francesca Neri, che avevo scoperto al centro sperimentale un giorno in cui Sergio Leone mi aveva chiesto di sostituirlo ai provini. Lei era carina, ma non riusciva nemmeno ad aprire bocca così ho capito che aveva una sensibilità maggiore. Sul set Francesca mi vedeva ancora come un maestro. Anche Serena Grandi l'avevo conosciuta piccolissima, aveva 17 anni e le trecce...
Anche la signora Grandi e Manuela Morabito però sono redivive. Com'è stato per voi tornare a lavorare con Avati?
Serena Grandi: Per la seconda volta devo ringraziare Pupi, sia perché ancora una volta mi ha dato la possibilità d'interpretare un personaggio che fa parte della sua famiglia sia perché è stato straordinario nel trattare un copione emozionante come questo.
Manuela Morabito: Con un maestro come lui sembra di avere a che fare con i valori della propria famiglia e devo confessare che ho imparato sul set da lui più che in tre anni di accademia.