Pur con qualche approsimazione a livello di scrittura cinematografica, la commedia di Oreste Crisostomi è un esordio ricco di intuizioni, laddove una città di provincia come Terni si rivela lo sfondo adatto per famiglie scombinate ed eterne crisi sentimentali, che hanno per protagonista un'Alice più vicina al precariato che al paese delle meraviglie.
Nonostante le tante sbavature, le piccole imprecisioni tecniche, le digressioni un po' futili che la sceneggiatura a volte introduce, vi è più di un motivo per guardare con curiosità e un pizzico di simpatia all'eccentrica commedia sentimentale partorita dall'esordiente Oreste Crisostomi; vi è una vitalità, intanto, un interesse per il complicarsi delle relazioni umani, da cui, rispetto alle pratiche sempre più omologate dell'italica commedia (con l'eccezione, magari, di un Paolo Virzì sempre più attento alle contraddizioni della nostra contemporaneità), scaturisce un'osservazione dei guai famigliari e sentimentali cui sono soggetti i protagonisti quantomeno partecipe, attenta, meno convenzionale e moralisteggiante di quanto sono soliti proporre, ad esempio, l'indifendibile Leonardo Pieraccioni e l'ultimissimo Carlo Verdone, sceso quasi agli stessi livelli di becerume nazionalpopolare dell'altro. In Alice vi è almeno una certa freschezza di sguardo. E poi c'è la provincia. Stanchi dei soliti scorci di una Roma borghesotta e tanto insincera quanto i film chiamati a rappresentarla, abbiamo preferito senz'altro sbirciare tra le stradine di Terni e in quei baretti, teatrini, locali di tendenza più o meno sonnacchiosi, in cui i personaggi descritti da Crisostomi vanno ad approfondire tresche, malumori e pettegolezzi.
In una pellicola dominata dai colori pastello e da musiche così presenti, che a tratti le si avverte in comunione sul piano diegetico coi personaggi principali del racconto, i temi portanti sembrano essere due: il peso di famiglie soffocanti ed oppressive, abbinato agli scompensi di vite sentimentali che oltre la trentina annaspano al bivio tra matrimoni di comodo e prolungate solitudini, solo talvolta interrotte da relazioni frivole e inappaganti. Ebbene, su quella modesta Bovary della provincia umbra che è la nostra Alice (adattissima ad interpretarla, col suo sorriso vagamente ironico e distaccato, la brava Camilla Ferranti), sembrano incombere entrambe le minacce, come una duplice spada di Damocle! Da un alto la famiglia, con l'acidità della madre (una strepitosa Fioretta Mari) e le fissazioni di un padre ossessionato dall'igiene (Gianfranco Barra) a tenere banco.
Ma è soprattutto il senso di inadeguatezza rivelato in campo sentimentale dalla nostra eroina, già precaria in ambito lavorativo (non mancano nemmeno le frecciatine di stampo sociale, dunque), ad affibbiarle un'aria da "Bridget Jones de noantri" che in più di un'occasione strappa un sorriso allo spettatore. Come se non bastasse, liquidato a fatica il belloccio arrogante di turno, Luca (Giulio Pampiglione), l'attenzione si concentra sui goffi tentativi di seduzione del pur simpatico Carlo, collega che gli occhiali dalla montatura enorme rendono simile a un Clark Kent, che probabilmente non si trasformerà mai in Superman. Da segnalare poi che il giovane Antonio Ianniello, chiamato ad impersonare Carlo, è tra gli attori emergenti (escludendo quindi la certificata bravura delle navigatissime Gisella Sofio, Fioretta Mari, e della "guest star" Catherine Spaak) uno di quelli che hanno lasciato il segno, al pari di uno scatenato Massimiliano Varrese nei panni di Sandro, l'amichetto gay di Alice. Se le scene che vedono Sandro aiutare Alice nello scegliere i vestiti, le scarpe o il taglio di capelli hanno un sapore molto anglosassone, da commedia brillante newyorkese, le inquadrature che fotografano in qualche bar (spesso con la camera fissa e da angolazioni insolite) il disagio iniziale di Alice in presenza di Carlo, sembrano quasi occhieggiare il cinema di Aki Kaurismäki.
Cos'è, allora, a penalizzare una pellicola come Alice al punto che in certi frangenti la bontà delle intuizioni viene messa in secondo piano dalle incertezze stilistiche e di scrittura, da scelte di regia meno ispirate e dal prolungarsi di parentesi narrative poco efficaci? Essenzialmente il venir meno del coraggio. Fino ad un certo punto Oreste Crisostomi sembra osare una messa in scena ed approcci tematici insoliti per la nostra commedia recente, ma poi questi spunti si disperdono o peggio ancora rientrano in binari più accessibili, manipolabili: accade così che le tensioni tra Alice e il resto della famiglia si sciolgano in un attacco di iper-buonista comprensione reciproca, oppure che lo spettro di un aborto venga allontanato precipitosamente. Peccato, perché sentendo meno l'urgenza di chiudere il cerchio in modo così armonico e infine zuccheroso, la pellicola poteva risultare ben più pepata, divertente, corrosiva, attuale.