Sergio Rubini e tutto il cast al completo, o quasi (mancano l'attore Fabrizio Gifuni e il maestro Nicola Piovani), presentano a Roma il film L'uomo nero, commedia ambientata nella provincia pugliese degli anni '60. Una storia familiare in cui s'intrecciano l'autobiografia, i ricordi e le radici del regista, e alle quali si uniscono le gradevoli interpretazioni degli attori Valeria Golino, Riccardo Scamarcio, il piccolo Guido Giaquinto, Mario Maranzana e lo stesso Rubini. Un'opera corale, dunque, contraddistinta da uno schieramento di personaggi variamente assortiti, ritratti con grande cura di particolari (ben definite le scenografie ed estremamente funzionali i trucchi e i costumi) e riportati sullo schermo da attori in grado di caratterizzarne le sfaccettate psicologie con la giusta misura. Rubini torna dietro la macchina da presa dopo due anni di assenza (Colpo d'occhio) e mette in scena una commedia dotata di richiami felliniani, complici le musiche del compassato Nicola Piovani, e ambientata in una dimensione quasi privata che sposa lo spazio intimo, da cui ha preso avvio il soggetto - sceneggiato da Domenico Starnone, Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini - e quello urbano, fatto di vicoli presepiali e tradizioni secolari. Riesce a dosare con equilibrio una sceneggiatura ricca di spunti spigolosi come il rapporto padre-figli, arte-mestiere, antichità-modernità schivando i luoghi comuni di una messa in scena caricata troppo sull'uno o sull'altro versante e affidando lo svolgimento di una trama tanto ombrosa quanto colorita, come la pittura di Cezanne, ricorso frequente del film, ai toni drammatici e a un umorismo di presa sicura sul grande pubblico. Sergio Rubini racconta e si racconta: confessa che ogni volta che dirige un film c'è sempre qualcosa di profondamente autobiografico, ma che stavolta, a dispetto delle apparenze, c'è più finzione nella verità che verità nella finzione. Il suo film, che sarà distribuito da 01 Distribution in oltre duecento copie, ritorna sui binari dai quali era partito con La stazione del 1990, che aveva segnato il suo esordio alla regia a soli 29 anni, ma il cerchio, che si svincola da una quadratura perfetta o perfettibile, com'è giusto che sia, non si chiude: l'opera di Rubini è continuamente suggellata da nodi e snodi a lui cari, ma ogni volta il regista sa reinventarsi, come lui stesso si ripromette di fare, affrontando fili di trame sempre diversi che si dipanano dietro i volti di attori coi quali instaura un feeling evidente e che dirige con notevole bravura. Rubini ci parla con ironia accennata e con garbo della sua ultima esperienza cinematografica, chiarendo la sua posizione nei confronti della critica giornalistica, verso la quale dichiara di provare un certo rammarico, e non un astio come si potrebbe equivocare da certe sequenze del film. Ad accompagnare il regista e gli attori Guido Giaquinto, un bambino-attore di soli 8 anni che sembra timido, ma comunica sullo schermo le sue ansie e le sue gioie con lo sguardo di chi sa già cosa pensa.
Sergio Rubini questo è il suo decimo film da regista. Sembra che lei continui a sentire il richiamo della sua famiglia e della sua terra, che porta sullo schermo attraverso ricordi onirici, immagini fantastiche e velati tocchi di nostalgia. E' partito da queste basi per raccontare questa storia?Sergio Rubini: A essere sincero non ricordo neanche più da cosa sono partito. Sicuramente un punto di partenza per me è stata la sceneggiatrice Carla Cavalluzzi, che conosceva alcuni spunti che le avevo raccontato in passato, come quel treno con il macchinista che lanciava caramelle... poi c'era la voglia di tornare a lavorare con Mimmo Starnone, col quale ho in comune un padre ferroviere e pittore. Abbiamo messo insieme pezzi delle nostre storie, di tre generazioni diverse. All'inizio avevo paura che sarebbe venuta fuori una trama sfilacciata, bozzettistica, poi ho avuto quasi la paura opposta: temevo che ci fosse troppa trama che soffocasse il clima, che era la cosa che mi stava più a cuore.
E' tornato alle sue radici con questo film?
Sergio Rubini: Se non torno a me stesso cosa racconto? In fondo si torna sempre a se stessi quando si dirige un film. In questo caso sono tornato alla provincia pugliese, che conosco bene. Ma quando si mette in scena un film autobiografico, si mente più che mai: quando parti da te stesso, non racconti quello che hai vissuto ma quello che avresti voluto vivere, gli incontri che non hai fatto, le parole che non hai detto. E' una sincera menzogna, è tutto vero ma tutto finto! Ho visto questo film anche con i miei genitori e mio padre mi ha chiesto: - Ma quello sono io?
Che rapporto ha con il suo passato?
Sergio Rubini: Ogni volta penso di poter fare a meno di tornare su me stesso. Io sono andato via da casa mia a 18 anni in maniera un po' spudorata, ho imparato a parlare in un altro modo, ricordo che tornavo a casa e sembravo un marziano agli occhi dei miei genitori. Allora non mi rendevo conto che stava cambiando anche il mio modo d'essere, di rapportarmi alla realtà.
Quando ho iniziato a lavorare ho pensato di dare un senso a quello che facevo e sono tornato indietro, mi sembra di vivere nel passato, ma per me il presente non esiste! Mi piaceva raccontare una commedia, il pregiudizio, il mondo di un uomo che vuole staccarsi da una realtà grigia, un rapporto padre-figlio in cui l'egoismo del padre è un po' invasivo.
Che significato ha dato al rapporto tra il suo personaggio, Ernesto Rossetti, e il figlio Gabriele?
Sergio Rubini: Dietro un genitore c'è prima ancora un uomo ed è quello che detestiamo di più da figli. Rossetti straborda con la sua persona e il figlio non lo sopporta per questo. Alla fine il figlio scoprirà che il padre era molto più virile di quello che pensava. Credo che queste siano cose che capitino a tutti noi, quando pensiamo al passato... Io volevo raccontare questo scioglimento tra padri e figli. Spero che il pubblico si diverta e si commuova. Volevo fare un film dei sensi, che raccontasse sia quello che siamo sia quello che ci piacerebbe essere: quello che mi piacerebbe essere l'ho raccontato nel film precedente, qui mi sono racconto, ahimè, per quello che sono.
Signor Rubini è la seconda volta consecutiva in cui prende di mira in qualche modo i critici nei suoi film. Lei che rapporto ha con la critica?
Sergio Rubini: Mi sono reso conto con un certo stupore che più di una persona abbia pensato che io abbia deciso di parlare della critica. Ma in questo film non parlo affatto di critici. I personaggi di Venusio e Pezzetti sono rappresentanti di un immobilismo meridionale che fa sì che tutto rimanga uguale a se stesso. Venusio vorrebbe essere pittore a Parigi, l'avvocato Pezzetti vorrebbe scrivere di Guttuso a Roma, ma sono due disperati! Io ho un rapporto speciale con la critica perché sono un attore che ha iniziato a fare il regista a 29 anni. Mi sono sempre sentito all'inizio molto prestato alla regia, un "imbucato" che non aveva consapevolezza della sua età. Prestavo molta attenzione a quello che mi scrivevamo, ho anche avuto un bel rapporto con alcuni critici. Mi sono accorto che alcuni non hanno scritto di me finché non ho iniziato a fare un certo tipo di cinema... Ho sempre seguito le tracce e i suggerimenti dei critici. Il mio rammarico è che oggi la critica non esista più, che sia ridotta a venti righe, che un film venga giudicato attraverso una stella in più o in meno!!
Che rapporto instaura sul set con i suoi attori?
Sergio Rubini: Di sicuro ho un rapporto speciale con gli attori perché sono un attore, ma oltre a questa conoscenza, provo tanto con gli attori. Riscrivo la sceneggiatura anche sulla base delle prestazioni degli attori. Ci trascorro un periodo insieme, cerco di coinvolgere gli attori protagonisti nelle scelte degli attori secondari. Ma la cosa importante non è stare bene insieme: conta il fatto che il gruppo produca un buon risultato. Mi piace lavorare molto con gli attori fino a stressarli.
Come ha scelto il piccolo Giaquinto? Ha avuto difficoltà sul set?
Sergio Rubini: Abbiamo visto quasi 12.000 bambini, ma io l'avevo già notato dopo i primi 300 e ho visto quelli successivi per non prendere lui - sorride. Lui era perfetto! Ma io avevo capito subito che questo bambino mi avrebbe dato filo da torcere: il primo giorno di riprese mi ha fatto perdere la voce e poi ha avuto il coraggio di prendermi in giro dicendomi che ridevo afono!
Signora Golino com'è stato per lei lavorare con Rubini?
Cos'ha trovato di speciale nel suo personaggio?
Valeria Golino: Franca mi piaceva e mi piace! E' una moglie, una madre, una donna con i piedi per terra, molto pratica, anche emancipata perché ha studiato. E' una donna terrigna, ma partecipa dei piccoli miracoli che osserva quotidianamente, parla coi suoi defunti e lo racconta ai suoi familiari come se fosse la cosa più normale del mondo. Ha anche un bel rapporto con le tradizioni e contemporaneamente con la modernità, un modo semplice di essere... E' gelosa perché innamorata del marito, cui vuole proprio bene al punto da cercare di arginare i disastri che lui può creare.
Riccardo Scamarcio come si è confrontato con il personaggio di zio Pinuccio, che è così comico e pieno d'ilarità?
Riccardo Scamarcio: Io ho iniziato a entrare nel personaggio al contrario dei miei colleghi: cercando di non andare alle prove, di scapparne perché era il modo migliore per entrare subito in Pinuccio.Ho provato a casa di Sergio 5 mesi prima di iniziare le riprese ed ero già pronto allora... Il mio personaggio è dissacrante ed è stato molto divertente interpretarlo. L'uomo nero è uno dei film più faticosi della mia giovane carriera: lavorare con Sergio è faticoso fisicamente, certo è anche una festa, un gioco continuo.
In questo film c'è un recupero importante ed evidente del dialetto. Cha valore attribuite al dialetto in questo particolare momento storico?
Riccardo Scamarcio: In Puglia tutti parlano in dialetto, che non è visto come una lingua
Sergio Rubini: In questo dialetto non c'è nulla di antropologico. A me piace molto mescolare le carte in tavola, ma la ricostruzione geografica del luogo non mi riguarda: penso a un cinema che reinventi la realtà, un cinema semplice ed efficace. Non credo che il cinema abbia un compito di regionalizzazione, al contrario. Detesto il fatto che se due o tre registi girano nello stesso periodo un film in Puglia questo venga visto come "fare cinema pugliese". Dentro questo film c'è una cadenza che farà arrabbiare con mio piacere tanti pugliesi!!
Mario Maranzana lei è sempre più di rado sul grande schermo. Ci parla di quest'esperienza?
Mario Maranzana: Io sono il decano di questo film perché ho 57 anni di lavoro alle spalle. Devo dire che ho lavorato con moltissimi registi anche di altra nazionalità e ho riflettuto sul fatto che noi usciamo il verbo "recitare", che significa attirare l'attenzione, nelle altre lingue invece si utilizzano verbi che significano più giocare. E sul set de L'uomo nero si è giocato molto. E il gioco è buono quando ha una bella struttura narrativa altrimenti il cinema non vale niente. Ho conosciuto personaggi di cui mi ricorderò anche se magari questo ricordo durerà poco perché ho 80 anni. Credo che questo film sia molto gradevole soprattutto per il ruolo della moglie, antichissima e moderna, e per l'aver passato i colori della Puglia come i colori di Cezanne.