Non hanno vinto il premio per le migliori interpretazioni, ma la motivazione dell'assegnazione della Palma d'oro 2012 al film di Michael Haneke, Amour, era piuttosto chiara in merito al valore delle performance artistiche dei due protagonisti, Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva. E' (anche) grazie alle loro straordinarie prove se la pellicola del celebrato autore austriaco si è aggiudicata il riconoscimento più importante all'ultimo Festival di Cannes. E' stato quindi un grande piacere poter scambiare qualche battuta con l'attore francese che abbiamo incontrato questa mattina a Roma, in occasione dell'uscita italiana dell'opera di Haneke, nelle nostre sale a partire dal prossimo 25 ottobre grazie a Teodora Distribuzione. In una carriera già ricca di partecipazioni prestigiose, da Il sorpasso di Dino Risi, a Il conformista di Bernardo Bertolucci e Tre Colori: Film Rosso di Krzysztof Kieślowski, arriva come un ulteriore dono la collaborazione con uno dei cineasti europei più importanti, che ha costruito su misura per Trintignant e la sua partner Emmanuelle Riva i ruoli di Georges e Anne, due anziani professori di musica la cui esistenza viene bruscamente cambiata dalla grave malattia di lei. Un vortice inatteso che risucchia le vita dei coniugi, fino al tragico epilogo. A sedici anni dalla sua ultima apparizione cinematografica, nel film di Patrice Chereau, Ceux qui m'aiment prendront le train, l'attore torna dunque sul set in un film di cui si è innamorato poco per volta. Monsieur Trintignant è esattamente come lo si immagina. Placido nei movimenti, fermo nelle sue risposte che fa precedere da uno sguardo sorridente. Proprio come il titolo della biografia scritta a quattro mani con André Asséo, Alla fine ho deciso di vivere (Mondadori), ha scelto di superare i grandi dolori della vita, mettendosi in gioco ancora una volta.
Non è facile parlare di un film come Amour, così legato ai suoi attori...
Ma io non mi prendo nessun merito, anche se sono stato bravissimo (ride). I meriti sono tutti del regista. Per quanto mi riguarda io sono stato solo un collaboratore, una specie di operatore.
Qual è stato allora secondo lei il merito più grande di Michael Haneke?
Direi il suo rigore estremo. Michael dice di se stesso di essere un buon regista perché ha più esigenze degli altri e lo posso confermare. Anche per girare una scena molto semplice come quella del piccione che arriva nella casa dei protagonisti, ci abbiamo messo tre giorni. Ero dolorante perché avevo un braccio rotto e avevo un'ingessatura di resina che dovevo per forza togliere prima di iniziare. Questa è una cosa che non avrei fatto per nessun altro regista. E poi, visto che è l'ultimo ruolo che farò mai al cinema, mi sono lasciato andare.
Ho adorato Niente da nascondere e ho detto ai miei amici che semmai un giorno Haneke mi avesse offerto un film lo avrei fatto. Per caso, sei mesi dopo quella dichiarazione è arrivata la sua telefonata. Sono felice di aver accettato.
Ha mai avuto paura che la storia fosse troppo dolorosa?
Dopo aver letto la sceneggiatura avrei voluto rifiutare. Poi Michael mi ha spiegato che il film sarebbe stato in realtà carico di speranza. L'ho già visto quattro volte. Sono convinto che uscendo dalla sala il sentimento predominante sia la felicità e non il suo contrario. In Germania ed Austria è diventato un vero fenomeno sociale, cosa che non succederà in Italia e Francia.
Questo perché affronta degli argomenti, come la morte e la malattia, che sono ancora dei tabù?
Sì, ma Haneke ha fatto bene a raccontarli e con un tono diverso rispetto agli altri suoi film. Se qui c'è violenza non è mai gratuita, ma è al servizio della storia.
Il finale non entra nel dettaglio sulla fine di Georges, ma solo su quella dell'adorata moglie Anne. E' stata una scelta voluta dal regista?
E' così. Georges può morire o fuggire, non lo so. Personalmente e per mantenere fede allo spirito della storia credo che si suiciderebbe.
Secondo lei l'atto di Georges è eutanasia o un omicidio d'amore?
Si parla troppo di eutanasia in Italia, un argomento su cui si fa tanta confusione, anche a causa delle ingerenze della religione. Penso che Georges uccida Anne per amore. La storia peraltro è stata ispirata ad Haneke dalla vera vicenda di una zia a cui era molto legato e che gli aveva chiesto di aiutarla a morire. Michael rifiutò ma credo si sia pentito di non averlo fatto.
Lei ha partecipato a Tre Colori: Film Rosso di Krzysztof Kieślowski. Ha trovato qualche punto di contatto tra i due registi e magari anche tra i due personaggi che ha interpretato?
Premetto che Kieślowski è uno dei registi più amati da Haneke e in assoluto sono due grandi autori. Diciamo che appartengono entrambi alla famiglia di Ingmar Bergman. Per quanto concerne i personaggi, si somigliano un po', ma il giudice di Film Rosso era un vecchio misantropo. Georges invece ama sua moglie e Amour è essenzialmente un film d'amore.
Per la prima volta nella mia carriera ho lavorato senza fare alcuna prova. Visto che il film è stato girato in digitale e senza pellicola non c'era alcun timore di sprechi e Michael ci ha fatto lavorare a oltranza. Abbiamo parlato molto tra di noi e non avevo mai incontrato un regista così pieno di idee. Non voleva in alcun modo che cercassimo le emozioni. In certi momenti Emmanuelle scoppiava in singhiozzi e Michael ci bloccava dicendo che non voleva vedere lacrime. E' successo anche a me quando mi chiese di girare la scena della prima colazione secondo il mio pensiero. Mi ero preparato molto, ma di nuovo Haneke disse no. E aveva ragione. Noi accettavamo questo atteggiamento, per così dire, freddo perché la sensibilità appariva dalle scene e apparteneva all'occhio dello spettatore. Se ci avete fatto caso nel film non c'è mai alcuna musica che sottolinea gli stati d'animo dei protagonisti, nessun espediente alla Hitchcock, ma essa è funzionale alla scena.
Che ricordi ha della sua esperienza italiana?
Ho lavorato in Italia negli anni d'oro del vostro cinema. Conservo un bel ricordo di Il sorpasso di Dino Risi, un film che da voi è stato considerato commerciale, mentre in Francia veniva giudicato 'intelligente'. In genere le commedie vengono sempre sminuite, ma mai come in quel caso la commedia è servita per parlare di cose importanti.
Signor Trintignant, questo per lei è tempo di bilanci, dal punto di vista artistico e personale?
Direi di no, perché in fondo non è una cosa che devo fare io. Dal punto di vista artistico ritengo di essere stato molto fortunato. Prévert diceva che il caso è troppo importante per essere lasciato al caso. Ecco, penso di essere stato come un tappo di sughero che si lascia trasportare dalla corrente, ho fatto circa centotrenta film e di questi ne conserverei trenta. L'importante è continuare a fare cose che mi piacciono.
Allora perché ha deciso ora di pubblicare la sua biografia? E' stato un bisogno di liberarsi?
Non direi. E' nato tutto spontaneamente da una chiacchierata con il mio amico di sempre André Asséo. Lui mi faceva domande a cui rispondevo liberamente finché un giorno mi ha detto di aver scritto un libro su di me.
Qual è il suo rapporto con la vecchiaia?
Mi infastidisce, vorrei essere più giovane. Ma è anche vero, come sostiene un mio amico, che se non si sente dolore allora sei morto.
Molto, è una bellissima frase che dice molto di quello che ho provato dopo la morte di mia figlia Marie. Avevo smesso di vivere e mi sono detto, o mi ammazzo o decido di vivere.
Quanto è contato il lavoro in questo suo percorso?
Il teatro e la poesia hanno rappresentato molto per me. Alla mia età se devo scegliere, scelgo qualcosa che e amo. E cioè il palcoscenico.
Non cambierebbe idea nemmeno se Haneke le chiedesse ancora di partecipare ad un suo film?
Per lui lo farei, sì. Anche solo una comparsata, anche solo un ruolo piccolo piccolo.
Non è un addio al cinema, allora...
Diciamo un arrivederci.