Diciamolo subito: Zodiac non è il classico thriller dove nel finale viene smascherato il misterioso assassino e la storia si conclude facendo combaciare tutti i pezzi del puzzle che i protagonisti tentano di risolvere. Nel suo essere densissimo di avvenimenti, di date, di personaggi, di informazioni, il lungo film di David Fincher preferisce l'esperienza della ricostruzione del caso piuttosto che darci la soddisfazione certa della sua risoluzione. Il finale sembra venire incontro al pubblico, ma allo stesso tempo lasciandolo nell'incertezza e nel dubbio. Perché questa duplice scelta che ci tiene con il piede in due staffe lasciandoci appagati e allo stesso tempo delusi? Cerchiamo di rispondere a questa domanda spiegando il significato del finale di Zodiac.
Le due facce della medaglia
Zodiac è un film di doppi: l'eterna lotta tra bene e male, indagano poliziotti e giornalisti, quest'ultimi a loro volta divisi tra intera redazione e l'ossessione di un singolo, gli omicidi che vediamo (fatta eccezione per quello del tassista volto a "rompere lo schema" del serial killer) riguardano due persone, un uomo e una donna, lei destinata a morire lui destinato a sopravvivere. E ancora il linguaggio cifrato delle lettere di Zodiac (nome che il killer ha dato a sé stesso) che nasconde un secondo linguaggio, la capacità di scrivere quelle lettere con entrambe le mani essendo il killer ambidestro e che viene descritto, a inizio film, sia come un bianco che come un nero; due sono le voci dei testimoni (a ogni dichiarazione ne segue sempre una seconda che nega la prima) che creano questa figura di Zodiac sia umana che demoniaca (un Uomo Nero che semplicemente uccide e sparisce). Non è un caso, quindi, che il film sembri arrivare alla verità per poi perdersi in un labirinto di incertezze e, allo stesso modo, il finale sembri dare sia una conclusione definitiva alla vicenda sia lasciare le porte aperte rendendo il tutto irrisolto.
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Ricerca e ossessione
Una dualità che contraddistingue anche la divisione stessa del film. La prima metà di Zodiac sembra un vero e proprio resoconto della vicenda da un punto di vista esterno e "dall'alto". Ci vengono presentati i protagonisti del film (il vignettista Robert Graysmith, autore del libro da cui è stato tratto il film, l'investigatore Dave Toschi, il cronista Paul Avery), ma la narrazione procede spedita raccontandone essenzialmente i fatti. Non viene dato nessun tipo di background per i personaggi, prediligendo il racconto del caso e dei progressi della complicata risoluzione. Didascalie sullo schermo, salti temporali tra una scena e l'altra, un racconto abbastanza freddo e calcolato che dà proprio l'idea di un film di cronaca, una semplice ricerca dell'identità dell'assassino (anche se non manca in Fincher il piacere dell'intrattenimento, pensiamo alle scene degli omicidi) che è il vero e proprio focus del film. Focus che, nella seconda metà, si concentra sul personaggio di Jake Gyllenhaal che, mentre gli anni passano e l'assassino ormai sembra essere un lontano ricordo, ancora continua a mettere insieme indizi. Una vera e propria ossessione che troverà pace solo nel momento in cui riuscirà a guardare negli occhi il killer dello Zodiaco.
Verità assoluta e verità individuale
E alla fine Robert Graysmith sembra aver scoperto davvero l'identità dell'assassino. Si tratta di Leigh Allen, il vicino di casa della prima vittima che, a poco più di un'ora dall'omicidio, aveva partecipato a un party dei genitori di lei raccontando, senza essere creduto, di avere ucciso qualcuno. Allen era stato incarcerato per pedofilia e questo spiegherebbe l'ossessione di Zodiac per i bambini (nelle lettere li chiama "piccoli cari" e minaccia continuamente di far esplodere una scuolabus), il suo aspetto sembra coincidere con la descrizione dei testimoni che danno dell'assassino e nel corso degli anni Allen era stato perquisito o interrogato dalla polizia. È il sospettato numero uno e tutto porta a credere che sia lui ad essere Zodiac, eppure "legalmente" viene sempre scagionato. La calligrafia delle lettere, per quanto simile, sembra non corrispondere mai e persino le poche impronte digitali trovate nelle scene del crimine sembrano appartenere a un'altra persona. Leigh Allen è, allo stesso tempo, colpevole e innocente, è l'assassino eppure non lo è. Graysmith, pur sapendo di essere impotente e pur sapendo che il caso probabilmente non troverà mai una fine certa, non ha dubbi e nel 1983, in un negozio di ferramenta, riesce a rintracciare Leigh Allen. È a questo punto che, per lui, la verità è venuta a galla: guardando negli occhi il suo colpevole è finalmente riuscito a trovare la pace interiore che tanto cercava. Se ancora non si è arrivati a una verità assoluta (il caso è tutt'ora in corso in America), l'ossessione di Graysmith può definirsi conclusa.
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La poetica del pessimismo
Tuttavia Fincher decide di concludere il film con un ulteriore indizio sulla colpevolezza di Allen. L'epilogo si svolge nel 1991 in un aeroporto dove un poliziotto chiede a Michael Mageau, il ragazzo sopravvissuto all'omicidio di inizio film, se riconosce il volto dell'assassino tra alcune foto segnaletiche. Tra queste c'è il volto di Leigh Allen su cui Mageau ha pochi dubbi: è lui Zodiac. Ma è sono passati più di vent'anni e non c'è certezza. Le didascalie finali sembrano voler lasciare ancora meno dubbi sulla colpevolezza di Allen (un esame del DNA non lo escluderebbe dai sospettati, dalla sua morte - avvenuta per arresto cardiaco prima di poter incontrarsi con alcuni poliziotti dopo l'identificazione di Mageau - Graysmith non riceve più telefonate anonime), ma senza una risposta davvero certa. Torna in mente, quindi, il primo dualismo con cui abbiamo aperto questa nostra analisi: la lotta tra bene e male. E ci torna in mente un altro film di David Fincher, quel suo primo clamoroso successo di Seven dove anche lì si assisteva alla caccia di un misterioso assassino da parte di due detective. In quel caso, però, il killer veniva trovato e ucciso da Mills (Brad Pitt) completando, di conseguenza, il piano dell'assassino (cosa totalmente assente in Zodiac: non c'è piano, non c'è schema, non c'è spiegazione). E non possiamo fare meno di farci tornare in mente la battuta finale che conclude il film: "Hemingway una volta ha scritto: il mondo è un bel posto e vale la pena di lottare per esso. Condivido la seconda parte". Ecco allora che in entrambi i film la visione pessimistica di Fincher trova sfogo: il mondo è complesso e ambiguo, la luce della verità è troppo flebile rispetto all'oscurità del male e si spegne in fretta.