Con questa recensione di What We Do in the Shadows torniamo in un mondo stralunato, quello che nel 2014 ha deliziato i fan dell'horror (e in particolare delle commedie horror) tramite l'omonimo film scritto e diretto in tandem da Jemaine Clement e Taika Waititi, che sono anche gli autori della serie TV (e, separatamente, registi di sei dei dieci episodi che compongono la prima stagione). Tra le più gradite sorprese di quell'anno, il lungometraggio era un mockumentary su quattro vampiri - Viago, Vladislav, Deacon e Petyr - che vivevano insieme nello stesso appartamento in Nuova Zelanda, e raccontava le loro vicissitudini quotidiane tra faccende domestiche, la ricerca di nuove vittime di cui nutrirsi e la rivalità con un gruppo di licantropi (sui quali doveva essere incentrato il sequel, attualmente in standby a tempo indeterminato). Un divertimento molto autoironico, con tanto di post-credits dove Deacon cercava di far dimenticare al pubblico gli eventi del film, e che ora acquista nuova vita sul piccolo schermo grazie al canale americano FX. N.B. La recensione non contiene spoiler in senso stretto, ma il paragrafo finale, appositamente contrassegnato, svela un dettaglio che alcuni potrebbero non voler conoscere in anticipo.
La location cambia, le dinamiche no
La serie TV di What We Do in the Shadows sposta l'azione negli Stati Uniti, nell'area newyorkese di Staten Island, dove vive un insolito quintetto di personaggi: questa volta i vampiri sono tre uomini - l'iraniano Nandor, l'inglese Laszlo e l'americano Colin - e una donna (la rom Nadja, moglie di Laszlo), e a tenere loro compagnia c'è Guillermo, il servo umano di Nandor, costantemente oggetto di umiliazioni e di promesse non mantenute di farlo diventare come gli altri. Ciascuno di loro ha abilità speciali e un vissuto ricco di stramberie (Laszlo sostiene di essere stato Jack lo Squartatore, e ha anche recitato in diversi film porno interpretando un vampiro), in particolare Colin che è molto diverso dai suoi coinquilini: è in grado di muoversi alla luce del sole e non dà segni espliciti di vampirismo, dato che lui invece del sangue succhia l'energia vitale, e per farlo deve annoiare o far arrabbiare la vittima. Gli altri lo odiano, ma lo sopportano perché è il suo lavoro a pagare l'affitto. La loro esistenza relativamente sottotono prende una piega inaspettata con la visita del Barone Afanas, un vampiro antichissimo che vorrebbe vedere il mondo dominato dalla propria razza.
Recensione What we do in the shadows (2014)
Complice la scrittura di Clement e Waititi, nonché la scelta di mantenere l'estetica del finto documentario, la serie rispetta fedelmente lo spirito del What We Do in the Shadows cinematografico, adattandolo però abilmente alle nuove atmosfere statunitensi, soprattutto quando vediamo in azione Colin nel suo ufficio. È un'estensione dell'originale che non sa mai di annacquamento per il mercato USA, grazie soprattutto alla scelta degli interpreti giusti: il britannico Matt Berry, in particolare, ha sempre avuto uno stile di recitazione compatibile con le sensibilità degli autori, e lo mette in evidenza con autentica gioia sin dalla sua prima apparizione, con un istrionismo perfettamente in linea con le origini del personaggio (un nobile inglese appassionato di musica e scultura, con l'aggiunta di essere apertamente pansessuale).
Il sangue e le risate scorrono con allegria, rendendo ogni breve episodio (dai 24 ai 30 minuti circa) un brillante esercizio di comicità stralunata, supportato da un eccellente cast di contorno (il Barone ha le fattezze di Doug Jones, che si intende di creature di ogni tipo) e dall'accompagnamento musicale di Mark Mothersbaugh, già collaboratore di Waititi per Thor: Ragnarok.
Un universo che si espande
(Attenzione, spoiler minori!) Al netto dell'impressione iniziale, la serie non è un remake, bensì uno spin-off, ambientato nello stesso universo del prototipo. Questo è esplicitato nel settimo episodio, forse il migliore della stagione, in cui i nostri sono costretti a fare i conti con il Consiglio dei Vampiri, di cui fanno parte i protagonisti del film. Se già nella serie in generale l'autoironia è ai massimi livelli, in questa sede si rasenta il sublime grazie alla scelta di scritturare per le altre parti celebri interpreti di vampiri cinematografici e televisivi, tra cui Tilda Swinton e Danny Trejo (è sottinteso che si tratti dei medesimi personaggi che interpretavano all'epoca, ma per motivi legali sono chiamati con i nomi di battesimo degli attori).
Una gag eccellente, con il potenziale di poter essere ripetuta negli anni a venire con altri volti noti (Taika Waititi ha già ammesso di avere una lista di eventuali guest star per poter trasformare la presenza del Consiglio in una ricorrenza annuale), e che approfondisce ulteriormente quella che già ai tempi del lungometraggio era una riflessione sulla rappresentazione dei vampiri sullo schermo (basti pensare a Petyr che faceva il verso a Nosferatu il vampiro). Riflessione che, grazie a questa nuova rilettura televisiva, è ancora più dissacrante e divertente. Da vedere rigorosamente all'ombra.
Conclusioni
Arrivati in fondo alla recensione di What We Do in the Shadows scatta subito il desiderio di rivedere la serie, il cui misto di estetica da documentario, humour nero e cinefilia è un delizioso cocktail, esilarante e delirante, che farà felici i fan del film originale e ha anche la capacità di attirare nuovi spettatori. La partecipazione degli autori originali assicura che la follia dissacrante del prototipo sia rimasta intatta, questa volta con molti più minuti a disposizione per farci ridere di gusto.
Perché ci piace
- La trasferta americana non incide sulla comicità.
- I cinque protagonisti sono perfettamente in sintonia fra di loro.
- Le gag si succedono a un ritmo costante e preciso.
Cosa non va
- Chi non conosce il film potrebbe faticare a cogliere qualche dettaglio minore.