Mentre per la prima annata ci fu un'attesa di qualche mese, questa volta i nuovi episodi arrivano in Italia prima di essere andati in onda fino alla fine negli Stati Uniti (il finale è previsto per il 10 giugno), ed eccoci dunque a scrivere la recensione di What We Do in the Shadows 2, il secondo ciclo di avventure americane del gruppo di vampiri le cui imprese sono documentate in formato mockumentary. Una stagione leggermente diversa dietro le quinte (per cause di forza maggiore legate ad altri impegni, il co-creatore Taika Waititi, già co-autore del film da cui è tratto la serie, non ha diretto nessuno dei dieci episodi di questa stagione, e il sodale Jemaine Clement ne ha firmati solo due, oltre a partecipare alla scrittura del finale ancora inedito), ma il cui spirito è lo stesso, all'insegna della risata macabra e della rilettura irriverente del mito vampiresco.
La prima stagione di What We Do in the Shadows era stata una sorta di fulmine a ciel sereno, in grado di smentire ogni timore su una possibile prosecuzione televisiva dell'universo ideato da Taika Waititi e Jemaine Clement nel 2014, abbandonando la strada del remake per puntare invece sullo spin-off, con dinamiche leggermente diverse tra i personaggi e la scelta di una location che non fosse solo una concessione al pubblico americano con le stesse gag riciclate. Un approccio che aveva raggiunto l'apice della creatività stralunata nel settimo episodio, quello del processo, dove i nostri "eroi" erano giudicati da altri vampiri, tra cui i protagonisti del film e - questo l'autentico colpo di genio - vari personaggi tratti da altri film e serie, con i volti degli interpreti originali, come Tilda Swinton e Wesley Snipes (altra gag brillante, la scelta di dare a questi i nomi degli attori, per aggirare cavilli legali). Una trovata che gli autori avevano descritto come possibile tradizionale annuale, impegni degli ospiti permettendo, e anche se - per ora - non si è visto un crossover simile nella seconda stagione, l'ambizione per quanto riguarda i volti noti convocati per dare manforte al gruppo principale è sempre la stessa.
Dove eravamo rimasti
Avevamo lasciato i vampiri di Staten Island ancora vivi, grazie all'intervento del loro alleato umano Guillermo, dopo essere stati condannati a morte per l'uccisione del Barone (Doug Jones). La vita per loro procede in modo abbastanza regolare, anche se sono all'oscuro di una scoperta fatta da Guillermo: egli è un discendente di Abraham Van Helsing, celebre cacciatore di vampiri, e si chiede quindi se il suo destino sia quello di prima o poi uccidere i suoi amici. Nel mentre, la strana famiglia si procura un nuovo servitore, Topher (Haley Joel Osment), ma le cose non vanno per il verso giusto, richiedendo l'aiuto di un negromante (Benedict Wong). E questo è solo l'inizio di una nuova serie di avventure, tra nuove esperienze e vecchi nemici, tra cui il famigerato Simon (Nick Kroll) e un certo Jim (Mark Hamill).
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I tempi cambiano, la risata no
Se nella prima stagione la priorità era quella di introdurre i personaggi e mettere in evidenza i punti di forza di ciascuno di essi sul piano drammaturgico e umoristico (come sempre, il più spassoso rimane Laszlo, interpretato da Matt Berry) unita alla messa alla berlina delle tradizioni letterarie e cinematografiche legate ai vampiri, nella seconda c'è una maggiore integrazione nella società americana di oggi, con appositi episodi a tema che affrontano usanze tipicamente statunitensi come il Super Bowl, e situazioni quotidiane che per il quartetto di non-morti risultano astruse come le catene di Sant'Antonio via mail e la persecuzione da parte di troll in rete. Si gioca anche molto di più sulla dinamica personale tra i protagonisti, e in tale ottica è saggio affidare la regia di metà degli episodi di questa stagione, inclusi la premiere e il finale, a Kyle Newacheck, veterano della serie Workaholics.
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Come abbiamo detto, non c'è, almeno per ora, il vero episodio-evento come in precedenza, ma gli autori compensano con diversi ospiti speciali sparsi attraverso l'intera stagione, cominciando con Haley Joel Osment che rivisita il tema del "vedere la gente morta" in modo inatteso ed esilarante (e confermando, dopo The Boys lo scorso anno, di essere la scelta ideale per serie di genere un po' fuori dal comune) e arrivando a Mark Hamill, da sempre pronto a divertirsi in ambiti che abbiano poco o nulla il comune con il franchise che lo ha lanciato quattro decenni or sono. La serie continua quindi a evolversi, prendendo ciò che era familiare e stravolgendolo nel modo giusto, facendo sì che le risate ci siano ma non per forza in base a uno schema prevedibile. E con la conferma di una terza annata già arrivata nei giorni scorsi, è lecito attendere con trepidazione ancora maggiore la conclusione di questo secondo ciclo, e gli elementi che metterà in gioco per le macabre avventure a venire.
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Conclusioni
Chiudiamo la recensione di What We Do in the Shadows (stagione 2) con la stessa euforia della prima, perché se in occasione del suo debutto la serie ci aveva sorpreso per la capacità di non essere una pallida fotocopia del film, con questo ritorno dimostra di sapersi reinventare con brio e irriverenza, pur restando fedele allo spirito di base. Abbondano gli ospiti strepitosi, come Mark Hamill, ma la vera forza dello show rimane il quintetto principale, composto da quattro vampiri e dal loro improbabile alleato umano.
Perché ci piace
- I cinque protagonisti rimangono un gruppo spassoso.
- Le gag sulla cultura odierna sono brillanti.
- Le guest star sono eccelse e sfruttate nel modo giusto.
Cosa non va
- Chi si aspettava un episodio-evento come il settimo della stagione precedente potrebbe restare deluso.