Scrivere la recensione di We Can Be Heroes (titolo che si rifà esplicitamente al ritornello della celebre canzone di David Bowie) significa - quasi - chiudere un anno fuori dal comune con spirito festivo, poiché il nuovo film di Robert Rodriguez, un divertimento per tutta la famiglia, debutta su Netflix proprio il 25 dicembre, stesso giorno del nuovo film Pixar su Disney+ (e, negli Stati Uniti, del ritorno di Wonder Woman su HBO Max). Un Natale, per chi lo volesse, all'insegna dell'avventura sullo schermo, in questo caso piccolo per forza di cose (inizialmente era previsto che il film uscisse in sala con la Sony). Non che questo dia particolarmente fastidio a Rodriguez, cineasta che ha sempre abbracciato le novità, dalle riprese in digitale all'uso della terza dimensione, fino allo streaming stesso come dimostrato dalle sue recenti esperienze in ambito seriale. E per certi versi è giusto che la sua nuova fatica sia facilmente alla portata di tutti, da gustare insieme (nei limiti del possibile a seconda dei singoli paesi), trattandosi di una storia che non solo si rivolge alle famiglie a livello di target, ma le pone proprio al centro del meccanismo drammaturgico.
Bambini alla riscossa
Al centro di We Can Be Heroes c'è la Heroic, un'azienda interamente dedita alle attività supereroistiche. È lì che lavorano tutti i grandi difensori della Terra, tra cui Marcus Moreno (Pedro Pascal), che in realtà si era ritirato su richiesta della figlia Missy ma è costretto a tornare sul campo in occasione di misteriose apparizioni aliene. Su iniziativa di Ms. Granada (Priyanka Chopra), dirigente della Heroic, Missy viene messa al sicuro insieme agli altri figli di supereroi, alcuni dei quali dotati di poteri strani: c'è chi sa manipolare oggetti e persone cantando, chi riesce a correre al rallentatore, chi è dotato di ogni potere immaginabile ma non sa controllarli. C'è anche Guppy, la figlia di Sharkboy e Lavagirl, che ha ereditato le abilità di entrambi e quindi riesce a controllare l'acqua. Solo Missy è sprovvista di capacità fuori dal comune, ma sembra avere il necessario per diventare la leader del gruppo, cosa fondamentale quando gli alieni rapiscono i loro genitori. Spetterà alla nuova generazione risolvere la crisi, prima che sia troppo tardi...
A volte ritornano
Correva l'anno 2005 e, dopo aver conquistato critica e pubblico con Sin City, il cineasta Robert Rodriguez andò in direzioni molto diverse, firmando Le avventure di Sharkboy e Lavagirl in 3-D, lungometraggio ambizioso ma irrisolto che giocava con la terza dimensione e vantava un aspetto produttivo decisamente curioso, ossia che uno dei figli del regista fosse l'autore del soggetto, frutto della sua fervida immaginazione (all'epoca il piccolo Racer aveva tra i sette e gli otto anni). Il nuovo film, con un Racer ormai adulto tra i credits, è un sequel molto libero, nel senso che non occorre aver visto l'originale per capire gli eventi di questo capitolo (e sì, lo chiamiamo capitolo perché c'è chiaramente un minimo di ottica da franchise, al punto da ridurre il ruolo di Sharkboy a un cameo muto per compensare l'assenza del suo interprete originale Taylor Lautner, impegnato altrove durante le riprese ma pronto a tornare per eventuali ulteriori seguiti). Un sequel a suo modo più semplice, che rinuncia al 3D, ma anche più sofisticato, con una scrittura ben più solida e coerente (il prototipo era palesemente il parto creativo di un bambino iperattivo).
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È un film che a suo modo accantona la carica politica di opere recenti del cineasta come Machete e Alita - Angelo della battaglia (ci sono battute su un presidente americano incompetente, ma la caricatura è troppo generica per essere una messa alla berlina diretta di Donald Trump) e torna a un'epoca più semplice, per l'esattezza quella di Spy Kids: il canovaccio è infatti molto simile a quello del film del 2001, un erede spirituale - quello diretto, anch'esso disponibile su Netflix, è una serie animata - che ritrova le atmosfere spensierate di due decenni fa, aggiornandole però il giusto per inserire qualche frecciatina ben piazzata nei confronti del genere supereroistico (ma senza schierarsi apertamente in ottica Marvel o DC: la cinefilia fa capolino in altri momenti, come quando Rodriguez omaggia in modo splendido Lo squalo). La tecnologia è cambiata, ma il messaggio sull'importanza della famiglia è sempre lo stesso, e sebbene manchi un po' l'equilibrio di allora (in questa sede il cast adulto funziona a intermittenza, a causa di una struttura narrativa che trascura molti dei supereroi "senior"), la sincerità e il divertimento sono intatti, al servizio di una storia che, soprattutto di questi tempi, è un rassicurante ricordo di come il cinema - anche se ridimensionato su Netflix - e la vita possano unirci in modo forte e profondo. Anche con una "semplice" avventura ad altezza bambino.
Conclusioni
Chiudiamo con gioia la nostra recensione di We Can Be Heroes, spassoso e intelligente film sul lavoro di squadra e sul ricambio generazionale in un contesto avventuroso e supereroistico.
Perché ci piace
- Le tematiche care a Robert Rodriguez sono presenti ed elaborate con criterio.
- Il cast giovane è adorabile e convincente.
- Il potenziale per altri capitoli è molto promettente.
Cosa non va
- Il cast adulto non è sempre sfruttato al meglio.