Iniziamo da una domanda implicita (almeno per chi scrive) e poi proseguiamo nell'analizzarla: possiamo ancora considerare WALL•E come il punto più alto della Disney Pixar? Assolutamente. Ma attenzione: questo non vuol dire che il film diretto da Andrew Stanton e prodotto da Jim Morris sia anche il migliore dello studio d'animazione. Scindiamo le due cose, e proviamo invece a riflettere su quanto quel film, uscito nel 2008, piazzandosi tra i ben più "accessibili" Ratatouille e Up, rappresenti una sorta di parentesi graffa all'interno della poetica Pixar, rifacendosi ad un certo lirismo, e scegliendo - con coraggio - un linguaggio da opera totale che rifiuta ogni ammiccamento ad un possibile target di pubblico. Nel bel mezzo dei cambiamenti visivi e linguistici, il piccolo robot incaricato di pulire un mondo distrutto, ha rappresentato a sua volta una rivoluzione per il genere, rifacendosi a sua volta agli archetipi del cinema muto come Buster Keaton o Charlie Chaplin.
Lo ricorderete: i primi venti minuti del film non hanno dialoghi. Ci sono solo i rumori e i beep emessi da WALL•E, che prosegue incessantemente il compito per cui è stato progettato: siamo nel 2105, e la Terra è una landa desolata ricoperta dai rifiuti. A governare il mondo - ormai trasferito su gigantesche navi spaziali - una grande multinazionale, la BnL. Inizialmente, l'azienda ha messo in campo un esercito di robot per liberare il pianeta dai rifiuti - i Waste Allocation Load Lifter • Earth-Class, di cui fa parte appunto WALL•E - ma a un certo punto i robot si sono disattivati. Tutti, tranne uno. Che, imperterrito, ha proseguito umilmente e nobilmente il lavoro. E l'incipit del film, dalla fortissima potenza visiva, asciugato dalle parole ma riempito di gesti, di significati e di dettagli, fece decisamente discutere: possibile che un cartone animato abbia un inizio così inaccessibile, così inusuale, così distante dall'approccio e dal coinvolgimento che potrebbe avere un bambino?
Hello, Dolly!
Eppure, i venti minuti iniziali messi in scena da Andrew Stanton hanno segnato una rivoluzione nella rivoluzione: l'innovazione tecnica stava raggiungendo lo zenit, in quanto gli animatori erano riusciti a dare un'anima ad un oggetto inanimato che non avesse sembianze antropomorfe, proprio come il tenero robot protagonista, a sua volta ispirato agli impolverati modellini di Tomorrowland, l'utopica e futuristica città ideata da Walt Disney negli anni Sessanta. Un riverbero visivo entrato nella storia, e supportato dal sound design di Ben Burtt: gli sfrigolii meccanici diventano riconoscibili e umani, la sensibilità di WALL•E acquisisce una forma tridimensionale, sfumata, profonda.
Il resto, come sempre, è questione di linguaggio e di scelte: prima che la solitudine (altro spunto) del robot venga spezzata dall'arrivo della robot EVE, incaricata di cercare segnali di vita, l'individualità di WALL•E - e quindi il suo carattere - viene forgiata dai rifiuti preziosi che mette da parte, a cavallo tra un passato glorioso e un futuro distopico. Tra l'immondizia raccolta, per genio e antitesi della sceneggiatura, c'è una vecchia VHS di Hello, Dolly! di Gene Kelly, che rivede tutte le sere: Barbra Streisand e Walter Matthau spiegheranno al robot dagli occhi tristi cos'è l'amore, cosa sono i sentimenti, cos'è la condivisione. Un momento forte, agghiacciante nella sua infinita dolcezza e nella sua dolorosa consapevolezza.
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Tuttavia, se WALL•E è il punto massimo della Disney Pixar, lo è anche per il contesto, le influenze, le suggestioni. Andrew Stanton ci presenta due mondi: uno deflagrato e inghiottito dall'inquinamento e dai rifiuti, e un altro sospeso, lobotomizzato, passivo, pigro. Due scelte ben definite, che all'epoca forse passarono quasi inosservate (al netto delle polemiche riguardanti il problema dell'obesità), eppure ormai basilari nella narrativa contemporanea, che abusa - senza quasi mai centrare il punto - della retorica green e ambientalista. Argomenti talmente puntuali e importanti che non possono essere banalizzati, né strumentalizzati. Eppure WALL•E, quindici anni fa, aveva già detto tutto, e previsto tutto. La cornice post-apocalittica (apocalisse indotta dall'uomo) è spietata nei suoi riferimenti orwelliani, basandosi su quei conflitti che oggi sono ben più marcati rispetto al 2008 (quando la comunicazione era più lenta, e più ponderata). Le minacce all'ordine culturale, l'abuso e l'uso del potere, il cambiamento climatico avallato da una tecnologia che avanza veloce, una pigrizia di pensiero generale, che non permette digressioni né soggettività. Ma solo indolenza e passività.
Secondo Andrew Stanton, l'uomo, pur non venendo direttamente incolpato, è intrappolato in una dimensione amorfa, impostato su una vita standardizzata e rinchiusa in uno spazio dove le relazioni avvengono tramite uno schermo. Già. Ed è incredibile se pensiamo che il film sia uscito in un'epoca in cui i social erano soltanto un'abbozzo. Ancora più visionario, se pensiamo addirittura che l'idea originale risale nientemeno che al 1994, quando Stanton ebbe l'intuizione, a pranzo con Pete Docter, John Lasseter e il compianto Joe Ranft: l'umanità in crisi abbandona la terra, lasciando indietro i robot. Uno, dopo decenni, è ancora "vivo" e prosegue la sua solitaria esistenza. L'aspetto sci-fi della vicenda, poi, sarebbe stato influenzato da Robinson Crusoe, e dal concetto di comunicazione non verbale, a cui poi si sarebbe aggiunta la digressione politico-sociale-culturale e la digressione ambientale.
Da qui, all'interno di WALL·E, qualcosa mai avvenuto prima (né dopo) in un film Disney Pixar: una distruzione e un'implosione. la distruzione della terra, e l'implosione dell'umanità. C'è una scena particolarmente significativa: ad un certo punta, una carrellata si sofferma sui ritratti dei precedenti capitani della nave ammiraglia Axion, e li osserviamo mentre si trasformano, generazione dopo generazione. Le stesse generazioni che, ora, stanno affrontando l'alba di un'Era oscura, che non permette più pigrizia, né perdite di tempo: bisogna agire ora, l'emergenza incombe. Non è più possibile ritardare, il Pianeta è in pericolo. E ce lo aveva già detto quel piccolo robot spazzino, così espressivo e così innamorato, nella sua folgorante dimensione di cinema. Una dimensione poetica, essenziale e, appunto, inarrivabile.