"La lasagna è di destra, la pasta è sovranista". Iniziamo così, citando una delle tante frasi ad effetto che si susseguono all'interno dei dialoghi di Unicorni. Una frase esplicativa, da filosofia social (e quindi forse spicciola); una frase tutt'altro che casuale (e come molte altre, troppo sottolineate), certamente consona ad un tono da commedia leggera (dramedy?) capace, tuttavia, di affrontare con determinata fermezza il tema dell'identità e della felicità (ma non solo). Iniziamo anche col dire che Unicorni è anche il miglior film - almeno fino ad ora - diretto da Michela Andreozzi, che l'ha scritto insieme a Tommaso Triolo e Alessia Crocini. Sì, la stessa Crocini presidente di Famiglie Arcobaleno (dando al film un rilievo sociale).

Un supporto narrativo che si nota (le due avevano già lavorato insieme in Nove lune e mezza), in quanto il film - presentato al Giffoni - non sbaglia l'approccio all'argomento, risultando volutamente fiabesco, delicato e zuccheroso (superando, a volte, il consentito glicemico). Chiaro il rimando, fin dalla locandina (gli stessi colori, la stessa texture fotografica, pure gli stessi alberi!), a Wonder di Stephen Chobsky. Del resto, per ammissione della regista, Unicorni - come nel lungometraggio di Chobsky - è anche un film sulla genitorialità, in un contesto che richiede "scelte delicate".
Unicorni, la trama: quando l'identità diventa libertà

Unicorni parte in medias res: un pranzo allargato di una famiglia ancora più allargata. In mezzo le solite chiacchiere, popolane e populiste, scambiate senza una vera cognizione di causa, con superficialità e approssimazione, come spesso accade. "Le relazioni open? Quelle che una volta si chiamavano corna", sintetizza Stefano (Lino Musella), maschio eterobasico (per citare un duo molto celebre su Instagram), riguardo i presupposti delle nuove generazioni in fatto d'amore. Capiamo subito qual è il clima, e quali sono "gli schieramenti". Dall'altra parte c'è Lucio (Edoardo Pesce), che serve in tavola, accompagnato dalla moglie Elena (Valentina Lodovini). Accanto, anche l'ex moglie di Lucio, ovvero Marta (Donatella Finocchiaro). Prima di separarsi i due hanno avuto una figlia, ormai teen-ager, Diletta (Rosa Gabriele).

Elena e Lucio, invece, sono i genitori di Blu (Daniele Scardini, non sappiamo se continuerà a fare l'attore ma ce lo auguriamo), il protagonista. Ha nove anni, ha i capelli lunghissimi e, soprattutto, adora vestirsi da ragazzina. Non solo, gioca con le bambole e non ha nessuna attinenza con il calcio (a proposito di eterobasici). I genitori sono assolutamente liberali e progressisti, permettendo a Blu di essere se stesso, almeno dentro casa. Tuttavia, quando arriva il momento della recita scolastica tutto cambia: Blu vorrebbe vestirsi da Sirenetta (versione live-action, però). Allora, la grande domanda: come assecondarlo ma, intanto, proteggerlo dalla cattiveria di un mondo spietato?
Come ingannare lo stereotipo

Effettivamente, Unicorni si accende in un momento ben definito e, nemmeno a dirlo, sottolineato da una battuta chiave. "Non voglio più essere un maschio", diretto e schietto, dice Blu, in macchina, a suo papà Lucio. Questione di identità, dicevamo, indagata dalla regista cavalcando, come lei ha scritto nelle note di regia, "un momento storico fortemente polarizzato da posizioni estreme". Forse per questo il film prosegue andando a folate di enormi stereotipi, di cliché, di luoghi comuni.
Per far prima (?), di necessità virtù (?), di escamotage risolutivo (?), perché nel bene e nel male lo stereotipo - come la commedia insegna - è prezioso materiale narrativo. Il tutto, avvolto da una coltre disneyana probabilmente funzionale al discorso intrapreso, ma settata secondo uno sguardo da film tv più che da grande schermo (basti pensare alla fotografia di Stefano Salemme, che illumina più del dovuto), al netto di un sentimento registico mosso da una focale partecipazione, e appoggiato sul buon cast (su tutti Edoardo Pesce e Lino Musella, perfetti antipodi).

Unicorni, dunque, è pieno di frasi fatte che puntano su quei discorsi che tengono botta, e su cui la bieca politica, spesso, gioca a far campagna elettorale. Discorsi di impellente necessità, aggiungiamo: se Blu cerca la felicità più che un vero e proprio orientamento sessuale, Unicorni si sofferma anche sui dubbi di una generazione - quella dei genitori - spesso impreparata, in ritardo e con pochi mezzi a disposizione. Certo, tutto è fin troppo limpido e fin troppo patinato; tra una scena e l'altra sbracciano le inflessioni tipiche e purtroppo abusate del family movie (no, in Italia i family movie non li sappiamo fare), riconducibili ad un immaginario cinematografico ormai americanizzato. Certo, almeno 'sta volta, è il diametro che conta, così come conta la coralità e l'onestà dietro gli intenti. In fondo, non possiamo fare a meno di essere ciò che siamo. Al cinema, ma soprattutto nella vita.
Conclusioni
Che dire di più? Unicorni è il film più riuscito di Michela Andreozzi, co-scritto con Tommaso Triolo e Alessia Crocini. Affronta il temi dell'identità ma soprattutto della felicità. Un tono fiabesco e delicato, probabilmente debitore a Wonder di Stephen Chobsky nell'esplorare la genitorialità e le "scelte delicate" che essa richiede in un contesto sociale fin troppo polarizzato. Dall'altra parte, l'utilizzo dello stereotipo e cliché risulta ridondante, pur veicolante rispetto all'umore portato avanti: essere se stessi, e affrontare i paletti di una società spesso impreparata al cambiamento.
Perché ci piace
- Un buon cast.
- Una regia che ci crede.
- Il finale funziona.
- Una certa poetica disneyana.
Cosa non va
- Per diametro troppo simile a Wonder.
- Lo stereotipo è un'arma a doppio taglio.
- Le battute eccessivamente sottolineate.