Si respira un'aria da kolossal d'altri tempi durante la visione di Unbroken, secondo cimento da regista (oltre che da produttrice) di una delle donne più potenti di Hollywood: quella Angelina Jolie che la rivista Forbes ha eletto l'attrice più pagata del pianeta per ben tre anni (incluso il 2013), costantemente al centro delle cronache sia per le sue attività in campo umanitario, sia per il matrimonio con Brad Pitt, e capace di far incassare al suo ultimo film da protagonista, Maleficent, la bellezza di 750 milioni di dollari (a dispetto di critiche tutt'altro che clementi).
Alla Angelina Jolie come star indiscussa dello show business si è affiancata da qualche anno la figura della Jolie come cineasta dalle notevoli ambizioni, impegnata nel tentativo di coniugare il senso di epos proprio di un certo cinema classico (David Lean, William Wyler, tanto per scomodare un paio di numi tutelari) con i livelli di spettacolarità e di crudezza resi possibili dai mezzi dell'odierna industria hollywoodiana. È in questa ottica che è nato ed ha preso forma Unbroken, seconda 'creatura' della Jolie dopo il precedente In the Land of Blood and Honey.
La straordinaria vicenda di Louie Zamperini
Un'opera, Unbroken, per la quale la Universal non ha badato a spese, sborsando un budget di oltre sessanta milioni di dollari e innescando una macchina promozionale che ha permesso alla pellicola di diventare uno dei campioni d'incassi al box office natalizio (oltre 110 milioni di dollari negli USA). Un successo che, per quanto non del tutto scontato, di certo non lascia stupiti: Unbroken, infatti, è un film costruito su misura per attrarre il grande pubblico, mediante una vicenda intensa e struggente che ha pure il merito di essere basata su una storia vera, e se la critica non avesse reagito con discreta freddezza avrebbe potuto perfino fare incetta di candidature agli Oscar (invece il kolossal della Jolie ha dovuto accontentarsi di tre nomination minori per fotografia, sonoro ed effetti sonori).
Del resto, la vita dell'atleta italoamericano Louis Zamperini, detto Louie, costituisce una di quelle parabole esistenziali che difficilmente potrebbero lasciare indifferenti: adolescente problematico nella California degli anni Trenta, vittima di bullismo da parte dei coetanei per le sue origini italiane; outsider dalle prodigiose capacità di corridore, pronto a riscattarsi per i suoi meriti sportivi fino ad arrivare alla consacrazione alle Olimpiadi di Berlino del 1936; bombardiere dell'aviazione statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale, disperso nell'oceano insieme a due suoi compagni nei pressi delle coste giapponesi; e infine prigioniero di guerra, disposto a tutto pur di resistere alle sofferenze della propria condizione senza tradire l'onore della propria bandiera.
Fra grandiosità dell'apparato tecnico e retorica del superomismo
Un materiale narrativo, insomma, che già di per sé presenta un carattere sensazionale, degno - nel più fortunato dei casi - di offrire il soggetto per un film di Steven Spielberg (in fondo, siamo dalle parti de L'impero del sole o del più recente War Horse). Basandosi sulla biografia scritta da Laura Hillenbrand, affidata agli sceneggiatori Richard LaGravenese (La leggenda del re pescatore, Dietro i candelabri) e William Nicholson (Viaggio in Inghilterra, Il gladiatore), la Jolie ha messo dunque in piedi un racconto dai toni epici che si lascia ammirare innanzitutto per l'efficacia della messa in scena (una regia dinamica ma senza eccessive frenesie) e per le qualità di un apparato produttivo che può contare sulla suggestiva fotografia del maestro Roger Deakins e sulle musiche del prolifico Alexandre Desplat, senza dimenticare la presenza di un protagonista giovane ed accattivante come il venticinquenne inglese Jack O'Connell (Starred Up, la serie TV Skins). E in America, tanto è bastato a trasformare Unbroken in uno dei film più amati della stagione, anche in virtù di una storia decisamente edificante che inneggia alla capacità dell'essere umano di vincere ogni ostacolo e ad un superomismo dai contorni addirittura trascendentali (il martirio di Louie, e la climax che lo vede costretto a sostenere un'enorme trave, assumono quasi i tratti di una imitatio Christi). Peccato che il tutto sia servito allo spettatore con un semplicismo che sarebbe apparso maldestro già nel cinema di propaganda degli anni Quaranta, e che oggi va a confluire in un manicheismo davvero fuori tempo massimo.
Diario di un prigioniero
Se pertanto si può soprassedere sull'ingenuità un po' retorica di certe soluzioni narrative, come i flashback che rievocano la vita familiare del piccolo Louie, il suo senso di emarginazione e il trionfale riscatto attraverso le vittorie nella corsa, durante il film si verificano però altre 'cadute' ben più gravi: dalle sequenze - involontariamente risibili - che vedono Louie e i suoi compagni di sventura respingere sott'acqua uno squalo prendendolo a calci, mentre sono sotto l'artiglieria giapponese, alla piega perfetta delle acconciature e all'assenza quasi totale di barba dei miseri naufraghi anche dopo il quarantesimo giorno di isolamento su un canotto, per arrivare alla crudeltà vagamente fumettistica del direttore del loro campo di prigionia, il Sergente Mutushiro Watanabe (interpretato dalla popstar giapponese Miyavi), detto "l'Uccello".
Intendiamoci, non che sia necessariamente un errore sottolineare la brutalità e la malvagità di un criminale di guerra quale Watanabe, eppure gli sceneggiatori avrebbero potuto adottare un approccio più complesso e profondo nella descrizione del rapporto di rivalità, mista a una sotterranea stima, fra Watanabe e Louie: basti ricordare, a tal proposito, un capolavoro dell'antimilitarismo quale Furyo di Nagisa Oshima, e il travolgente sentimento di attrazione e odio fra i personaggi di David Bowie e Ryuichi Sakamoto. In Unbroken, al contrario, ogni possibile sfumatura, ogni chiaroscuro vengono sacrificati ad uno schematismo superficiale e di scarso interesse, risolto frettolosamente in un'etica del perdono relegata ai titoli di coda; al punto da rendere più che lecito il sospetto che la firma apposta al copione dai fratelli Coen, tutto considerato, non sia altro che uno specchietto per le allodole...
Movieplayer.it
2.5/5