Una traccia da seguire, per un'estate capace di cambiare l'orizzonte. La stagione più bella e più fugace, quella dei sogni e delle spiagge. Tutto il giorno in canottiera, perché tanto il freddo è un ricordo che deve ancora tornare. L'estate della scoperta, che amalgama una realtà dolorosa (eppure mai pietosa) ad una nuova consapevolezza magistralmente socchiusa nello sguardo finale, carico di meraviglia e carico di poesia. Ecco, la poesia: quella che sfiora gli attimi di dolcezza e attimi di oscurità, traslando l'avventura emozionale di quattro fratelli sospesi e filtrati dalla luce arancione di Sète, cittadina a pochi chilometri dalla Marsiglia di inizio Anni Duemila, nonché location già cara all'immaginario cinematografico di Kechiche e del suo discusso Mektoub, my Love. È chiaro, dunque, quanto lo splendido Una voce fuori dal coro (titolo originale Mes frères et moi, con cui è stato presentato a Cannes 74) di Yohan Manca sia saldamente legato ai ricordi del regista. Impossibile realizzare un film così intimo senza prescindere da un diretto coinvolgimento emotivo che, in questo caso, riguarda la scoperta dell'arte come naturale predisposizione umana.
L'arte come salvezza, l'arte come speranza, l'arte come antidoto alla morte. L'arte è al centro della nostra recensione, ed è al centro del film di Yohan Manca, liberamente tratta da un'opera teatrale di Hédi Tillette de Clermont-Tonnerre, portata in scena dal regista quando aveva appena diciassette anni. Un testo che gli è rimasto addosso per la sua forte propensione narrativa e generazionale. Oggi lo chiameremo coming of age, ma Una voce fuori dal coro può essere definito come l'epifania di un ragazzo nei confronti della vita, resa migliore (e contro ogni previsione) dalla musica. Anzi, dalla musica lirica: Luciano Pavarotti e Maria Callas, La Traviata, L'Elisir d'Amore o il Nessun Dorma. Dunque, il click e la disconnessione, che viaggia sulle immagini e sulle parole: una combinazione di musica e un contesto popolare e stridente, arricchito dalle suggestioni di un regista all'esordio da tenere d'occhio. Suggestioni famigliari ed esperienze di giovinezza che arrivano dal passato di Manca e trascritte negli occhi del protagonista, Nour, interpretato da un piccolo fenomeno di nome Maël Rouin-Berrandou.
Un grande film e il talento di Maël Rouin-Berrandou
In due ore scarse, la sceneggiatura di Yohan Manca delinea in modo puntuale tutti gli spazi a disposizione, in modo da soffermarsi sulle caratteristiche dei quattro fratelli. Ma è Nour il riferimento de Una voce fuori dal coro; riferimento e universo parallelo ad una realtà socialmente complicata, in cui rimbombano le assenze e le necessità consumate frettolosamente attorno ad un piatto di pasta scondita. Nour (Maël Rouin-Berrandou) ha quattordici anni, ed è il più piccolo dei fratelli, Abel, Mo, Hédi. Se Maël Rouin-Berrandou è una pura meraviglia interpretativa, gli attori che interpretano gli altri tre fratelli non sono da meno: un lavoro di casting perfetto che vede alternarsi rispettivamente le facce di Dali Benssalah, Sofian Khammes e Moncef Farfar. Sono loro a costituire il cosmo del film, mentre Nour - come può, come deve - prova a contribuire all'economia famigliare e alle cure di una mamma malata terminale. I quattro l'accudiscono in casa, perché è in casa che morirà. Un colpo al cuore che il regista non sfrutta mai in modo palesemente drammatico, ma che verrà anzi costruito come spunto di rinascita.
Una Voce Fuori Dal Coro: una clip in esclusiva tratta dal film di Yohan Manca
La musica, tra salvezza e amore
E poi la musica, costantemente presente, filo illogico e sinfonia da inseguire in questa fratellanza agraziata, che Nour rivolge (letteralmente) verso una speranza impossibile che sa di straziante amore. Se Abel, Mo, Hédi sono infatti l'emblema di una virilità pragmatica e arrabbiata (ma dal cuore buono), Nour è l'elemento sognante del nucleo. Mentre si improvvisa muratore, incontra Sarah (Judith Chemla, altra faccia perfetta) un'insegnante di canto che lo coinvolge nel suo corso pomeridiano, facendo aprire il ragazzo ad una passione tramandata dai suoi genitori (il papà italiano sfruttava Pavarotti per corteggiare la mamma). Una ricerca della bellezza che, però, si scontra con un mondo esterno marcatamente contrario.
Un contrapposto presente nella messa in scena, con la luce della fotografia firmata da Marco Graziaplena che coglie perfettamente gli umori di un film capace di regalare guizzi emotivi che si reggono sopra una struttura equilibrata e vitale, in cui il valore del racconto è dettato dai sentimenti. Perché Una voce fuori dal coro, come i grandi romanzi di formazione, non cerca mai il dolore diretto (pur essendoci, sempre) ma traslittera per immagini la vitalità disinvolta e gioiosa di un ragazzo di quattordici anni che ha deciso di vivere la sua vita. Rendendo il tutto ancora più vero, ancora più bello.
Conclusioni
La musica come salvezza, l'arte come epifania alla vita: concludiamo la recensione di Una voce fuori dal coro sottolineando quanto il film di Yohan Manca riesca in modo poetico a mantenersi su un equilibrio narrativo, in bilico tra dolore e vitalità. Un grande romanzo di formazione, ma anche una storia di sentimenti e di fratellanza. E Maël Rouin-Berrandou è una rivelazione.
Perché ci piace
- Il protagonista, Maël Rouin-Berrandou, e il cast tutto.
- La fotografia.
- La musica, come valore e come salvezza.
- I toni. Il dramma e la leggerezza sono in equilibrio.
Cosa non va
- Forse la durata, un filo lunga nella parte centrale.