Dietro la spessa mole di parole, e la fitta cronaca, è facilmente decifrabile l'intento di Icíar Bollaín, una delle registe spagnole più attive, che in carriera ha toccato un po' tutti i generi (viene da una commedia, Il matrimonio di Rosa). È decifrabile perché Una donna chiamata Maixabel (solito titolo italiano allungato: non bastava solo Maixabel?) è un film molto più semplice di come vorrebbe apparire, mettendo al centro della narrazione un'equazione forse scontata ma sempre attuale: la violenza è sopravvalutata. Per questo, la costruzione del film - partendo da una storia vera - si rivela poi asciutta, dritta, legata ai Fatti con F maiuscola, ma indispensabilmente legata anche alle persone coinvolte. E quindi agganciata ai riflessi umani che giocheranno un ruolo fondamentale nella vicenda.
Come poche volte accade, la sceneggiatura scritta insieme a Isa Campo mantiene una fermezza assoluta, esaltando il valore del racconto in un contesto sociale e politico che ha segnato la storia della Spagna, senza però perdere di vista la costante ricerca dell'umanità. Una ricerca, quella della Bollaín, che passa attraverso i dettagli, gli sguardi e le stesse parole. Parole incessanti e serrate, a cui la regista concede lo spazio necessario ponendosi - rispettosamente - mezzo passo indietro. Una donna chiamata Maixabel, infatti, è il classico film in cui la regia è presente senza però prendere il sopravvento: lo vediamo dal taglio, dallo sguardo, dai campi larghi che, poi, finiscono per incorniciare i volti e le emozioni dei protagonisti. Candidato a cinque premi Goya (ne ha vinti due, attrice e attore non protagonista), il film da una parte è dunque un racconto ferreo, dall'altra è un accorato appello all'ascolto, senza mai scendere nel pietismo o nella sfacciata emotività.
Maixabel, una storia vera
La stessa trama, tra l'altro, parte e si dirama da una frase emblematica pronunciata da Maixabel Lasa: "Tutti meritano una seconda possibilità". Maixabel, interpretata da Blanca Portillo, è la vedova di Juan María Jaúregui, politico socialista (nonché ex ETA, uscendo però nel 1972 non condividendo i moti violenti) che venne assassinato a Tolosa nel 2000 da una squadriglia dell'ETA, tornata attiva dopo due anni di tregua (la stessa tregua permanente annunciata e rispettata nel 2011, con lo scioglimento definitivo datato 2018). Le indagini porteranno all'arresto i colpevoli, condannati a 39 anni di detenzione.
Tuttavia, la pellicola di Icíar Bollaín, presentata al Festival di San Sebastian, si concentra sul capitolo successivo alla vicenda: è il 2014, e uno dei terroristi, Ibon Etxezrreta (Luis Tosar, tra i più grandi attori europei), chiede di incontrare la vedova. Sta scontando la sua pena nel carcere di Nanclares de la Oca, ad Álava, intanto che Maixabel Lasa è stata nominata direttrice della Oficina de Atención a las Víctimas del Terrorismo. Qui, la vicenda reale, viene raccontata da Icíar Bollaín con il giusto tatto cinematografico, soffermandosi così sul percorso che ha preceduto l'incontro.
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Tra la violenza e la speranza
Come scritto all'inizio della recensione, Una donna chiamata Maixabel asciuga la messa in scena per analizzare, con la giusta oggettività, il pensiero dietro le vittime e dietro i carnefici. Sembra un cortocircuito, eppure mette in chiaro qualcosa di molto complesso quando dice che lei "è legata per sempre ai terroristi". Per questo, l'accusa - che resta, che non può essere lavata - condivide la scena con il perdono. Attenzione, però: il perdono di cui si parla non è quello cristiano-cattolico, bensì quello che aperto all'ascolto, in qualche modo avvitato sul piano della consapevolezza. Dunque, sul piano dell'umanità. Un'umanità sempre presente, che la regista osserva con discrezione, quasi a non voler disturbare (la colonna sonora, per esempio, è ridotto al minimo, praticamente assente).
Certo, fin da subito l'atmosfera è densa, e potrebbe non essere subito recepita: per questo, nella sua verbosità che parte in medias res, bisogna fermarsi alla circolarità e alla totalità del film, che riflette in modo preciso gli umori delle parti in causa. Anche per questo, la fotografia di Javier Agirre è pervasa di toni grigi, per poi aprirsi ai colori più vivi solo nel bel finale. Un finale che mischia passato e presente, azioni e conseguenze, politica e realtà (perché la realtà è ben distante dalla politica). E mischia, in un grande colpo scenico, coloro che hanno scontato (e tutt'ora scontano) le conseguenza della violenza. I loro percorsi, tortuosi e drammatici, culminano idealmente in una sequenza finale che racchiude il senso stesso del perdono: creare dall'odio la speranza necessaria per andare avanti, affinché la violenza non prevalga. Mai.
Conclusioni
Umanità, rabbia, speranza, violenza, perdono. Non è facile, eppure Una donna di nome Maixabel affronta - in modo asciutto - temi fondamentali, partendo da una storia vera e concentrandosi sui fatti, sulle parole, sui protagonisti. Come scritto nella recensione, il film di Icíar Bollaín ci ricorda in modo efficace quanto la violenza non sia mai la risposta giusta. Opera di scrittura e di regia fugace, sorretta dall'interpretazione perfetta di Balnca Portillo e di Luis Tosar.
Perché ci piace
- Blanca Portillo e Luis Tosar, strepitosi.
- Lo stile asciutto.
- La cronaca che diventa cinema.
- Una sceneggiatura di ferro...
Cosa non va
- ... ma forse troppo verbosa per la sua oggettiva complessità.