Recensione The Oath (2010)

Il documentario della Poitras, raccontando la storia di due ex collaboratori di Bin Laden, arriva a porre importanti interrogativi morali, non sono sul valore della giustizia, ma anche sul potere delle barriere culturali.

Una complessa, inascoltata verità

Selim Hamdan e Abu Jandal sono cognati. Hanno lavorato entrambi per Osama Bin Laden, il primo in qualità di semplice autista, l'altro come guardia del corpo personale e preparatore "spirituale" dell'esercito jihadista. Ma mentre Selim ha passato sette anni nella prigione di Guantanamo, Jandal vive in Yemen, dove lavora come tassista. Questa evidente contraddizione è solo una delle tante emerse negli ultimi anni agli occhi di chi abbia voluto indagare l'atteggiamento americano nei confronti della guerra al terrorismo. E la documentarista Laura Poitras persegue questo obiettivo, sempre con un atteggiamento di grande imparzialità, focalizzandosi sui protagonisti della storia, non solo, o non tanto, in quanto soldati o presunti tali, ma in quanto esseri umani, padri di famiglia, persone con sogni, speranze, valori.

Le parole di Selim, quelle indirizzate via lettera alla moglie e al cognato dall'isolamento della sua cella, ci giungono accompagnate dalle immagini immobili della baia di Guantanamo: un contrasto stridente con la vitalità della città di Sana'a, in cui Jandal vive la sua quotidianità fatta di corse nel traffico, preghiere con il figlio e dibattiti sociopolitici con i giovani nipoti, confusi dal nuovo corso della guerra all'Occidente. Questo espediente non rende conto soltanto della disparità di trattamento a cui i due uomini sono stati sottoposti, ma anche delle loro profonde differenze caratteriali: Selim, anche dopo il rilascio, rifiuterà sempre di farsi filmare o di rilasciare dichiarazioni, mentre Jandal, conscio e apparentemente anche orgoglioso del proprio carisma, non esiterà a rispondere ad alcuna domanda, comprese quelle relative al proprio personale pensiero sugli attacchi dell'undici settembre.

La lontananza di Selim dalla scena, la semplicità e l'onestà del suo carattere raccontato attraverso i ricordi del cognato, la sua intricata vicenda giudiziaria nell'ambito della quale, dopo una prima assoluzione, si arrivò ad inventare il nuovo capo di accusa di "appoggio materiale al terrorismo" in modo da poterlo trattenere in carcere, funzionano nel trasmettere tutto il senso dell'ingiustizia a cui venne sottoposto. Ma non meno empatica è la figura di Jandal. La limpidezza con cui racconta il proprio passato di combattente è del tutto spiazzante per lo spettatore, e si stenta a credere che un uomo che ammette con totale naturalezza di aver sposato volontariamente la causa di Bin Laden possa vivere libero, e diventare quasi un mentore per i giovani della propria comunità. Ma la forza del film sta proprio nel riuscire, attraverso la testimonianza di un uomo che si è trovato a dover ridiscutere i propri presupposti ideologici e a doversi confrontare con i problemi quotidiani (far studiare i figli, cercare di ripagare i debiti per non perdere la casa), a svelare un volto inedito del cosiddetto nemico. Jandal è una figura complessa, lontanissima da quella dell'integralista acritico a cui siamo abituati ad associare i jihadisti. Jandal ancora oggi si chiede in quale misura abbia tradito il proprio giuramento di obbedienza a Bin Laden, si interroga sulla moralità dei propri atti e di quelli della propria comunità, cerca una risposta alla mancanza di certezze e di obiettivi che hanno portato lui ad avvicinarsi ad Al Qaeda e questa generazione su sentieri ancora diversi.

Selim e Jandal sono individui singoli, e sarebbe un errore credere che le loro storie possano esaurire un argomento complesso come il rapporto tra mondo occidentale e mondo arabo. Ma il film della Poitras, impreziosito da una notevole cura registica e da una fotografia di alto livello, ha comunque il pregio di farci vedere che quella realtà non è meno complicata ed eterogenea della nostra, e che ha diritto ad essere giudicata come tale. Tanto più in un tribunale, che con le sentenze sommarie, le torture e le incarcerazioni indiscriminate ha ottenuto ben poco: come ci rivela la testimonianza di un agente dell'FBI, la prigionia di un signor nessuno come Selim, nonostante i metodi estremi, è stata completamente vana, mentre l'interrogatorio di Jandal, basato sul dialogo e la cooperazione, ha permesso di accedere ad informazioni essenziali per gli Stati Uniti.

Movieplayer.it

3.0/5