Recensione Appuntamento a Belleville (2003)

Raccontare la trama di Appuntamento a Belleville è un'operazione che non gli rende giustizia: il film ha un andamento ai limiti dell'onirico, e la maggior parte del suo potere di suggestione è dato dall'incredibile, geniale stile visivo del film.

Un sogno ad occhi aperti

Dopo essere stato accolto dall'entusiasmo di pubblico e critica al Festival di Cannes, dopo aver vinto il più importante festival del mondo per il cinema d'animazione, quello di Annecy, è finalmente sbarcato in Italia Appuntamento a Belleville, gioiello firmato dal regista francese Sylvain Chomet.

All'inizio degli 80 minuti di racconto che assomigliano ad un sogno, Chomet ci porta a fare conoscenza con Champion, un bambino triste e silenzioso, che vive in un quartiere alla periferia di Parigi con la nonna d'origine portoghese, la signora Souza. Nel tentativo di ovviare alla tristezza del nipote, la donna prova prima con la musica, poi con un cane, Bruno: il tutto non sortisce però grandi effetti. Poi capisce il sogno del nipote, pedalare, e gli regala un triciclo. E il bambino, finalmente, sorride. Dopo molti anni, Champion è diventato adulto, e allenato dalla nonna è divenuto un ciclista formidabile: tanto formidabile da partecipare al mitico Tour de France. Ma proprio durante una delle tappe più dure della corsa, un cedimento in salita di Champion gli è fatale: viene infatti rapito e portato oltreoceano, nell'immaginaria megalopoli di Belleville, dove è schiavizzato dalla mafia francese. Ma la signora Souza, grazie al fiuto di Bruno, è sulle sue tracce, e sbarcata anche lei a Belleville, farà conoscenza con tre anziane ex stelle del music-hall, note come Les triplettes de Belleville. Con il loro aiuto dovrà cercare di trovare Champion e di liberarlo.

Raccontare la trama di Appuntamento a Belleville è un'operazione che non gli rende giustizia. Come detto, il film ha un andamento ai limiti dell'onirico, e la maggior parte del suo potere di suggestione è dato dall'incredibile, geniale stile visivo del film, che permette una narrazione praticamente priva di dialoghi e battute, accompagnata costantemente da una bellissima colonna sonora che ibrida il music-hall con il jazz e sperimentazioni sonore e rumoriste che sono vicine a quelle del Tom Waits più radicale.
Tutto nel film di Chomet - le fisionomie, gli ambienti, gli oggetti - viene deformato, passato sotto la lente di una visionarietà creativa che altera le proporzioni, che regala nuovi sguardi, nuovo punti di vista sul mondo e sulle persone che lo popolano. Champion, dal viso affilato come una lama, il corpo sottile come un fuscello e delle gambe muscolose come quelle di un culturista; la signora Souza, folletto dagli occhiali spessi e la scarpa con la zeppa per compensare una gamba più corta dell'altra; gli scagnozzi - letteralmente - quadrati e simbiotici al servizio dei boss francesi; le salite impossibili delle città e dei colli; l'inquietante monumentalità della megalopoli Belleville - che altro non è che l'America - che si arrampica verso il cielo; le geniali e surreali navi che solcano gli oceani.

E questo sguardo surreale parte e passa dagli occhi per arrivare al cervello, per raccontare una storia e delle situazioni che vivono lo stesso grado di surrealismo, di onirismo, di impossibilità che caratterizzano le figure - di ogni tipo - che le abitano e le animano. Dentro a tutto questo Chomet gioca, cita, rielabora, provoca. Prende gli stereotipi sulla Francia e sui francesi (il Tour, il vino, la criminalità organizzata, il polar, il mangiar rane) e quelli sull'America e gli americani (su tutti l'obesità) e li mescola insieme, confondendoli, non facendo capire chi o cosa o se effettivamente ci sia una vittima, piazzandoli qui e lì a costellare una storia senza tempo ma che nell'estetica richiama gli anni 50, che nella comicità ha il suo dichiaratissimo punto di riferimento in quel grande genio che è stato Jacques Tati, che nello stile complessivo ha sicuramente trovato ispirazione in due dei maggiori geni visionari del cinema contemporaneo, Terry Gilliam e David Lynch (non a caso entrambi anche animatori).
Raccontare, descrivere, "criticare" Appuntamento a Belleville è un'operazione di enorme difficoltà, perché difficilissimo è restituire quella sensazione di fantastico straniamento, di comicità, di grottesco che Chomet è in grado di suscitare nello spettatore con il suo film. Un film che straborda di trovate geniali, troppe per descriverle tutte, ma forse esemplificabili dall'incredibile struttura delle navi e dai meravigliosi incubi del cane Bruno - con la fobia dei treni - veri e propri sogni dentro al sogno complessivo del film.
Un film assolutamente da vedere, che contribuisce alla grande - purtroppo tardiva - rivalutazione del cinema d'animazione come cinema adulto, per tutti. E che inoltre dimostra qualcosa di più: dopo i capolavori della Pixar, si era giustamente sottolineato come la rinnovata creatività tematica e narrativa del cinema d'animazione fosse debitrice alle nuove forme espressive fornite dal digitale. Ebbene, Chomet, con un film quasi interamente realizzato in maniera tradizionale - ha ricordato al mondo che la differenza non risiede solo nell'utilizzare il computer o la matita, ma che è fondamentalmente in come si usa il cervello.