Quando si parla di artisti spesso si romanticizza la loro spinta a creare. Vengono usate parole come "urgenza" e "necessità". Eppure nel mondo contemporaneo sono davvero pochi gli autori che incontrano reali difficoltà nel realizzare i propri progetti. Certo, nel caso del cinema, che è un'arte molto costosa, si può fare fatica a trovare i fondi, ma non si rischia la vita nel portare avanti le proprie idee. Jafar Panahi è un'eccezione. I film del regista, sceneggiatore e attore iraniano sono infatti banditi nel suo paese e lui stesso rischia la galera continuando a lavorare. Eppure non cede: si ostina a girare in Iran, spesso di nascosto, con l'ansia di poter essere arrestato. È così che ha realizzato Gli orsi non esistono, che ha vinto il Premio speciale della giuria a Venezia 2022.

Anche Martin Scorsese, nel corso di una bellissima masterclass tenutasi al New York Film Festival, gliel'ha detto: "Come fai a continuare fare film con questa passione, se i rischi sono così grandi?". La risposta di Panahi è stata: "Mio padre era un lavoratore e il figlio di un contadino. E c'era una cosa che continuava a ripetermi. Diceva sempre: non ti è permesso inginocchiarti di fronte a nessuno tranne che a Dio. Da quando è morto, a 53 anni, ho cercato Dio ovunque. Ma non l'ho trovato nel cielo, l'ho trovato nelle immagini". Questo per far capire di che pasta sia fatto uno degli autori dalla voce più preziosa che abbiamo oggi.
Inutile dirlo, non si è piegato nemmeno per il suo ultimo film, Un semplice incidente, presentato in concorso a Cannes 2025 e in anteprima italiana alla Festa del Cinema. Nelle sale dal 6 novembre, è una storia non facile, che parte però con un pretesto semplicissimo: un uomo ha un incidente d'auto e cerca aiuto in un'officina. Il meccanico che lo accoglie, Vahid (Vahid Mobasseri), crede di averlo riconosciuto. Che sia proprio l'ufficiale dei servizi segreti che lo ha torturato anni prima?
Panahi e l'eterno dilemma tra vendetta e perdono
Quando parliamo di vendetta pensiamo a un valore assoluto, adatto a grandi romanzi e tragedie greche. Da cinefili magari ci viene in mente la Sposa di Kill Bill e la sua katana. Invece Un semplice incidente porta tutto su un piano molto concreto: come possono delle vittime di torture porgere l'altra guancia al proprio carnefice? È l'eterna lotta tra vendetta e perdono. E la violenza è insidiosa, perché una volta scatenata non può che autoalimentarsi, generando una spirale infinita. Non è un caso che il perdono venga spesso associato a santi e martiri.
Vahid non è certamente un santo. E non è nemmeno un martire. Ecco perché quel ricordo accende come un istinto cieco, che lo porta a rapire, legare e gettare in una fossa il torturatore. Ma poi il dubbio: e se non fosse quella persona? Se si fosse sbagliato? D'altra parte era bendato quando è stato sottoposto a quelle violenze terribili. L'incertezza lo assale. Si decide quindi a chiedere aiuto ad altri ex prigionieri, la cui vita è stata spezzata dalle mani di quell'uomo, soprannominato Eghbal (ovvero "gamba di legno", per via di una protesi).
La verità non è così semplice
Caricato sul furgone il prigioniero, Vahid va a cercare certezze dall'amica fotografa Shiva (Mariam Afshari). Sta per fare il servizio fotografico a una coppia in procinto di sposarsi. E anche la futura sposa, Golrokh (Hadis Pakbaten), è stata una vittima. Tutti decidono quindi di consultarsi anche con l'operaio Hamid (Mohamad Ali Elyasmehr). C'è chi pensa di aver riconosciuto la voce, chi l'odore forte del sudore, lo stesso sentito durante la prigionia. Ma, in un'escalation di rabbia e rancore, scoprire la verità è sempre più difficile. E forse nemmeno così importante: chi ha subito un torto grave cerca infatti sempre un colpevole.

Visti i temi trattati, su carta Un semplice incidente potrebbe sembrare un'opera filosofica, quasi teatrale, più che cinematografica. E invece Panahi realizza cinema in purezza: il ritmo è serratissimo, le luci notturne sono usate con intelligenza, sembrando gli occhi di un predatore, la suspense cresce in modo quasi insopportabile, seguendo la lezione di un grande maestro come Hitchcock. Per noi, come per i protagonisti, i sensi diventano presto ingannevoli. Il contrasto tra le immagini in movimento - ovvero il cinema - e tutti gli altri sensi, udito, olfatto e tatto, diventa quindi centrale, proprio a sottolineare la differenza tra teoria e pratica. Perdonare è facile se rimane un concetto astratto, ma diventa quasi impossibile nella realtà.
Grazie a questo gruppo di anime tormentate, Panahi racconta il suo paese senza fare sconti, facendosi l'unica domanda possibile: a prescindere di chi sia la colpa e quale sia la verità, si può restare umani se si diventa a nostra volta carnefici? Forse una risposta certa e chiara non c'è. Ma il regista se la fa fino all'ultimo secondo. Fino all'ultima inquadratura. Ed è incredibile come rimanga sempre lucido proprio lui, che vive in uno stato di perenne angoscia e difficoltà. Questo è davvero un grande autore.
Conclusioni
Il regista iraniano Panahi, perseguitato politico i cui film in patria sono banditi, continua a non piegarsi e a realizzare opere dalla lucidità disarmante. Un semplice incidente non fa eccezione: nel mostrarci la storia di un gruppo di prigionieri che credono di aver ritrovato, anni dopo, il loro torturatore, l'autore racconta il suo paese senza sconti. Ritmo serratissimo e suspense che monta e cresce fino all'ultimo fotogramma, questo è davvero grande cinema. E un grande autore. Da non perdere.
Perché ci piace
- La fede incrollabile di Panahi nel cinema.
- Il ritmo serratissimo e la suspense che cresce in modo quasi insopportabile.
- La sceneggiatura, firmata sempre da Panahi.
Cosa non va
- Se siete facilmente impressionabili questo film potrebbe angosciarvi.