Recensione A testa alta (2004)

La seconda regia cinematografica di Kevin Bray va tranquillamente ad affiancare tutte quelle pellicole che, particolarmente in voga negli anni Ottanta, mettono in mostra il macho di turno.

Un duro per la legge: trent'anni dopo

Nel 1973, Joe Don Baker interpretò il lungometraggio Walking Tall, per la regia di Phil Karlson, circolato dalle nostre parti con il titolo Un duro per la legge, incentrato sulla figura di uno sceriffo realmente esistito, Tennessee Buford Pusser, e sul tema dell'epica lotta dell'uomo di legge contro il crimine nella sua cittadina rurale. A quel grosso successo fecero seguito due capitoli interpretati da Bo Svenson, I giorni roventi del poliziotto Buford (1975) di Earl Bellamy e Final chapter: Walking Tall (1977) di Jack Starrett, ed oggi, a circa trent'anni di distanza, esce una nuova versione, diretta da Kevin Bray (All about the Benjamins), ed interpretata dal nuovo colosso cinematografico The Rock (Il Re Scorpione): A testa alta.

A differenza del film originale, A testa alta è ambientato a Ferguson, cittadina immaginaria degli Stati Uniti, ed il protagonista, agente delle Forze Speciali che ha lasciato il corpo per tornare nella città natale in incognito e ritrovare i vecchi amici, si chiama Chris Vaughn. Qui Chris scoprirà una cittadina che non è più come quando se ne andò: crimine e povertà regnano, Jay Hamilton, suo ricco compagno di scuola, ha chiuso la segheria del paese, redditizia attività della zona, per reinvestire tutti i suoi capitali in un casinò, all'interno del quale vengono svolte attività illegali. Deciso a riportare ordine a Ferguson, Chris, eletto Sceriffo, viene affiancato dal suo vecchio amico Ray Templeton e decide di metter fine alle losche attività di Hamilton.

"I primi due film, negli anni Settanta, colpirono al cuore l'immaginario collettivo. Un duro per la legge affermava che un uomo solo potesse sconfiggere la corruzione e fare la differenza. Era un'ispirazione per molti, e abbiamo ritenuto che questo fosse il momento adatto per riproporre quella storia". Da questa dichiarazione di Jim Burke, produttore del film insieme a Lucas Foster, Paul Schiff, Ashok Amritraj e David Hoberman, è chiaro che il tema originario dell'uomo solo che combatte in nome dei suoi princìpi e di ciò che è giusto a dispetto di tutte le avversità è stato mantenuto intatto, riveduto e corretto secondo il nuovo modo di raccontare per immagini ed il pensiero moderno, soprattutto in seguito alla sete di giustizia generata dagli attentati terroristici degli ultimi anni.

La seconda regia cinematografica di Kevin Bray, quindi, va tranquillamente ad affiancare tutte quelle pellicole che, particolarmente in voga negli anni Ottanta, grazie alle produzioni di Menahem Golan e Yoram Globus, o a quelle più raffinate di Joel Silver, mettono in mostra il macho di turno, incarnazione di un'America vendicativa e facilmente ricorrente a metodi poco ortodossi.
Purtroppo, però, il nuovo Walking Tall, vuoi soprattutto per le eccessive reazioni da parte del protagonista, risulterebbe ridicolo perfino se venisse trasmesso dai vari cicli Italia 1 action o Nati per vincere, che da sempre ci propongono l'action-movie quale genere che descrive in maniera eccessiva la violenza, rendendola volutamente esagerata e, perciò, inoffensiva e liberatoria. Se in Commando Arnold Schwarzenegger compiva un massacro ai confini della realtà per recuperare la figlia rapita, e nel recente The punisher Thomas Jane combatte il crimine per vendicare i familiari uccisi, nel remake di Un duro per la legge ogni piccolo disguido è un pretesto per scatenare il putiferio. In fin dei conti, il personaggio interpretato da The Rock, che per tutto il film non fa altro che imitare l'espressione (quale?) di Steven Seagal, agisce nello stesso, identico modo esagerato dei suoi predecessori cinematografici , ma ciò che rende il tutto grottesco sono le motivazioni che precedono le sue azioni di vendetta (basta pensare che la prima, violenta rissa avviene a causa di un dado da gioco truccato), tanto più che ha alla mano un inseparabile bastone di legno (elemento già presente nella pellicola originale) che, come un virile simbolo fallico, non abbandona mai, suscitando risate nello spettatore. Con la classica ambientazione da polveroso western moderno, un tripudio di dialoghi privi di contenuto e sequenze d'azione che, infarcite con gratuiti ralenti, non riescono mai ad appassionare, l'elemento più imbarazzante è che così tanto scontato "orgoglio coatto" sia stato generato dalle penne di ben quattro sceneggiatori: David Klass, Channing Gibson, David Levien e Brian Koppelman.

Decisamente un film da guardare..."a testa alta".