Mario ha nove anni, ed è quello che si suole dire un "bambino difficile". Cresciuto in un ambiente disagiato, viene sottratto dal tribunale dei minori alla tutela dei suoi familiari e dato in affidamento temporaneo.
Giulia e Sandro, la giovane coppia borghese colta e agiata che ha avuto in affidamento Mario, si trovano ad affrontare una serie di situazioni che li spiazzano e mettono a dura prova le loro convinzioni, il loro amore, la loro fragile identità familiare. Se Giulia è come rivitalizzata da questa esperienza, come donna e come madre, Sandro sembra soccombere di fronte alle difficoltà, fino a mettere in crisi il loro stesso rapporto.
Mario passa improvvisamente dalla squallida periferia di Napoli alle alberate colline con vista sul golfo; approfitta avidamente di ciò che gli viene messo davanti, a volte con innocenza, altre volte con sfrontata arroganza, ma con una sorta di naturalezza, una naturalezza ancora troppo giovane per significare qualcosa ma che pure ci colpisce, quasi che un bambino in una situazione simile non abbia in un certo senso diritto a una sua normalità di bambino. Come a rimarcare il suo non volersi abituare a questa nuova per quanto effimera realtà (l'affidamento temporaneo ha delle procedure piuttosto complesse) Mario si rifugia in una sua dimensione parallela, un amico immaginario come lo hanno tutti i bambini, un universo truce e sanguinoso fatto di rabbia e violenza da videogame.
Il film di Antonio Capuano sceglie un approccio distante, poco indulgente al facile sentimentalismo; lo stile è asciutto, frugale, disadorno (eccezion fatta per le sequenze "oniriche", interessanti ma di dubbia riuscita, per lo meno in rapporto agli standard a cui il fotografo Luca Bigazzi ci ha abituati). E' un peccato che tanto rigore e compostezza conducano infine in uno dei luoghi da sempre più pericolosi, più autenticamente kitsch del cinema, in special modo di quello italiano contemporaneo: il luogo del dramma borghese da camera, dello psicodramma, del dramma auto-riflessivo, coi personaggi impegnati in estenuanti e futili elucubrazioni ad alta voce sulla loro condizione. E così quello che dovrebbe emergere dalle situazioni rappresentate, ciò che dovrebbe scaturire dalla drammaturgia, l'impossibilità di un rapporto realmente al di là delle convenzioni sociali, il recupero della capacità stessa di amare (il proprio non-figlio come la propria non-moglie) - elemento indispensabile al di là delle contingenze e delle opportunità - libera da criteri utilitaristici e "ragionevoli", ebbene tutto questo ci viene semplicemente illustrato, spiegato, raccontato. Nulla accade, tutto sembra già scritto nella sceneggiatura di Capuano, che prova a dire il vero a metterci delle pezze con alcuni espedienti (il cane Mimmo, il compagno della madre naturale di Mario), deboli tentativi di instillare una goccia di vita vera in un film dove i protagonisti sembrano recitare la loro stessa vita, salvo poi ripiombare spesso e volentieri in un didascaliscismo asfissiante (la diffidenza degli assistenti sociali, il razzismo della scuola, il ragazzino coetaneo ma tanto più sfortunato). Un senso di asfissia che, paradossalmente, sembra opprimere lo stesso personaggio interpretato da Valeria Golino, continuamente e ossessivamente impegnata nell'esame di sé stessa, del suo essere donna, dei suoi doveri e delle sue funzioni di "possibile" madre, una madre potenziale ma totalmente assorbita nel suo ruolo, così consapevolmente da apparire irrimediabilmente falsa, sia come madre che come donna. Nessuno stupore che il pavido Sandro, stretto tra il folclore partenopeo più collaudato da una parte e una specie di psicodramma bergmaniano dall'altra, sia tentato di scappare a gambe levate.
Valeria Golino (mai come in questo caso la sua voce monocorde e inespressiva è stata così adeguata) e il giovane Marco Grieco (convincente la sua prova) riescono qua e là a regalarci degli sprazzi, dei bagliori, qualche battuta, degli scambi rabbiosi e teneri, dei momenti di autentico e fugace confronto. Accade, di rado, quando Capuano si ricorda, sporadicamente, che i suoi personaggi soffrono, gioiscono, fuggono, cercano, temono; in una parola vivono oltre le loro (noiose) riflessioni e la loro (incredibile) autocoscienza.