L'ultima provocazione di Lars von Trier ha a che fare con la sua principale ossessione: la figura femminile. Nella conferenza dello scandalo di Cannes 2011 in cui si guadagnò una messa al bando dal festival per aver affermato di empatizzare con la figura di Adolf Hitler, l'eccentrico regista danese lanciò una seconda bomba passata inosservata (sul momento) perché offuscata dalle dichiarazioni filonaziste che fecero sobbalzare l'entourage del festival. Dopo aver esplorato perversioni, deviazioni e fragilità dell'animo umano in una filmografia variegata e talvolta irritante, von Trier annunciò la volontà di girare un porno.
Ammiccando a Kirsten Dunst, splendida protagonista di Melancholia seduta al suo fianco, il regista indicò la star americana come possibile interprete. Ovviamente la Dunst, che grazie al genio e alla sregolatezza di von Trier si portò a casa un'inaspettata Palma d'oro attoriale, conquistata nonostante le polemiche, si è ben guardata dal fare il bis. Non ha, invece, esitato a mettersi per la terza volta nelle mani del regista carnefice, dopo il poetico Melancholia e il ben più disturbante Antichrist, Charlotte Gainsbourg, evidentemente una delle attrici più coraggiose in circolazione. L'interprete francese non può che ringraziare il proprio istinto - o l'incoscienza - che l'ha convinta a fidarsi di von Trier ancora una volta. Dietro l'apparente volontà di scandalizzare, il porno fiume The Nymphomaniac è una summa poetica, filosofica e intellettuale in cui il nevrotico cineasta si misura col tarlo che lo tormenta da sempre: il gentil sesso.
Frustrazione e (auto)distruzione
Nel cinema di Lars von Trier le donne, loro malgrado, sono protagoniste sempre e comunque. Vittime e carnefici allo stesso tempo. Eppure al buon Lars non mancano gli alter ego maschili. Il regista danese può contare su un manipolo di fedelissimi pronti a tutto, attori feticcio attraverso cui proiettarsi nelle storie che racconta. Stellan Skarsgård, Udo Kier, Willem Dafoe e, più di recente, lo scavezzacollo Shia LaBeouf incarnano limiti, debolezze e perversioni che albergano nell'immaginario turbato dell'autore. Von Trier mette in scena i suoi simili, o meglio, se stesso, senza prestarvi più di tanto attenzione. A dispetto di quegli autori che si muovono nella propria comfort zone parlando solo di ciò che conoscono, l'incauto cineasta danese sceglie di spiccare il balzo verso l'ignoto sollevando, film dopo film, l'asticella della complessità. Dietro l'approccio 'scandaloso', The Nymphomaniac si rivela un'indagine stratificata sulla natura del piacere femminile. Il regista, con approccio didattico, mette in scena la propria dolorosa impotenza di fronte al mistero della donna e al potere contenuto nell'organo sessuale femminile, organo che, riprodotto in forma stilizzata, non per nulla è divenuto brand del marketing legato al film (di cui trovate la recensione qui). Di fronte al potere seduttivo della donna niente e nessuno riesce a resistere, neppure l'individuo più probo, ma in questa sessualità sfrontata e totalitaria manca la gioia. Incapace, nonostante tutti i suoi sforzi, di possedere la donna, di comprenderne a fondo i meccanismi mentali, Lars von Trier si vendica negandole la possibilità della felicità. Il finale di Nymphomaniac - Volume 1 rappresenta l'apice della sua vendetta, ma passando in rassegna tutte le figure femminili del cinema di Lars von Trier troviamo donne indoddisfatte, infelici, tormentate da misteriosi demoni che le corrodono dal profondo, donne incapaci di bastare a sé stesse, pronte a ogni sacrificio per gli uomini o ancora donne tormentate, stuprate, lacerate dagli abusi, condannate alla devastazione a causa della troppa sensibilità. Di fronte alla propria frustrazione, il cineasta consuma la sua raffinata rivalsa mettendo in scena donne che non possono amarsi.
Von Trier il sadico
Bess ama il marito Jan a tal punto da umiliarsi in maniera totale, fino a compiere il sacrificio supremo in cambio della vita dell'uomo. Per amore del figlio, e per tener fede a un giuramento, Selma va incontro al patibolo dopo aver forzato la propria natura ingenua e sensibile uccidendo su richiesta il marito della sua padrona di casa. Quanto a Karen, la donna combatte la propria depressione unendosi a un gruppo di svitati che danno libero sfogo alla propria idiozia in una piccola isola felice per sfuggire a un'agghiacciante situazione familiare. Con ironia alquanto sottile, Idioti, Dancer in the Dark e Le onde del destino sono stati ribattezzati 'Trilogia del cuore d'oro'. Tre film che, oltre che al cuore, colpiscono allo stomaco per la durezza e lo sconvolgente trattamento riservato alle figure femminili. E che dire della servizievole Grace, ridotta in schiavitù dalla comunità di Dogville, di Justine, condannata alla malattia e all'infelicità (mentre il mondo sta per implodere) perfino nel giorno del matrimonio o della madre di Antichrist, la cui lussuria coniugale viene punita con la perdita del figlio? Il compiaciuto sadismo di Lars von Trier, quel rapporto conflittuale con la figura femminile ben riassunto dalle scritte tatuate sulle sue nocche (love, hate) che esibiva fiero ai fotografi nella Cannes delle polemiche, si manifesta punendo la donna in ogni modo possibile, frustrandone la femminilità, impedendole la maternità, umiliandone la dignità, sfregiandone il corpo, senza mai riuscire a possederla fino in fondo. Sarà per questa sua manifesta nevrosi che alcune delle sue attrici, in primis Nicole Kidman e Bjork, si sono lamentate del trattamento riservato loro sul set giurando di non voler più lavorare con il genio maledetto danese. Anche se, in tempi recenti, la Kidman sembrerebbe essersi ricreduta visto che abbiamo rischiato di ritrovarla in The Nymphomaniac.
Dogma 95: regole per negare le regole
Che si ami o si odi, Lars von Trier ha reinventato il cinema danese. Per rompere col passato e sfuggire alla dittatura del denaro che governa le grandi produzioni, recuperando la purezza della materia visiva, insieme all'amico Thomas Vinterberg ha stilato il manifesto del Dogma. Che poi ne abbia tradito le regole subito dopo poco importa. In aperta provocazione con quell'industria dell'artificio che è Hollywood, il Voto di castità di von Trier prevedeva uso della sola macchina a mano, assenza di luci artificiali, di scenografia e colonna sonora, personaggi autentici e scomparsa dei nomi dai credits dell'opera per affrancarla dalla dittatura del regista. Niente di più falso nel caso dell'opera di von Trier, il cui stile inconfondibile difficilmente può essere offuscato. Più egotico che egocentrico, il buon Lars ha realizzato un solo film che rispetta i canoni del Dogma, il provocatorio Idioti, visto che l'opera successiva, Dancer in the Dark, prende tutt'altra direzione grazie all'inserimento di incredibili scene musical. Anche in questo caso la finzione cinematografica ha preso il sopravvento. Nella scena della gang bang improvvisata, nonostante il tentativo di mettere a proprio agio gli interpreti imbracciando la macchina da presa completamente nudo insieme all'altrettanto nudo tecnico del suono, Lars ha dovuto affidarsi a professionisti del porno per riprendere una penetrazione, visto che anche i suoi coraggiosi interpreti non erano in grado di prodursi in una tale perfomance. A quanto pare, l'ossessione del porno è storia vecchia per Lars. La sua Zentropa, per un breve periodo, ha addirittura prodotto alcune pellicole per soli adulti (porno per donne, a dirla tutta) prima che gli scandalizzati soci inglesi imponessero lo stop.
Gli idioti. Il nostro futuro?
Il radicalismo ideologico di Lars von Trier e il suo disgusto nei confronti del perbenismo borghese della civile Danimarca si manifestano in tutta la loro potenza ne Gli idioti. La pellicola, scritta in quattro giorni e girata altrettanto agevolmente grazie allo snellimento strutturale del Dogma, parte dall'assunto di Rudolf Steiner secondo cui i mongoloidi sarebbero un dono per l'umanità perché permettono ai (presunti) sani di liberare il fanciullo celato nel loro animo. Questa teoria filosofica viene messa in bocca all'ideologo del gruppo degli idioti, Stoffer, il quale in un rapido excursus storico spiega alla nuova arrivata Karen che i malati rappresentano il segno dell'evoluzione della società, visto che nell'antichità la loro presenza veniva rapidamente cancellata dalla selezione naturale. L'opulenza della ricca borghesia industriale ha permesso la cessazione della loro estinzione. "Essere idioti è un lusso, ma anche un passo avanti''. Dal film si evince che in effetti l'evoluzione ha permesso sì ai down di avere un ruolo attivo e protetto nella società, ma anche a un gruppo di uomini e donne infantili e nullafacenti di passare il tempo fingendosi malati, sbavando vistosamente nei locali pubblici, lasciandosi trascinare seminudi negli spogliatori dell'altro sesso per assistere indisturbati alle reazioni delle persone 'normali', reazioni neppure troppo scomposte, considerato l'aplomb dei danesi. Gli strali di Lars von Trier colpiscono entrambe le fazioni, i borghesi perbenisti e i finti rivoluzionari che si permettono il lusso di prendersi gioco degli altri dall'alto della loro boria mentendo ai propri cari, sfuggendo alle responsabilità e sfruttando (gratis) come base per le proprie malefatte la casa del padre di Stoffer. A ridicolizzare questi ultimi ci pensano gli ultimi dieci agghiaccianti minuti del film in cui gli idioti vengono messi di fronte alla drammatica situazione familiare di Karen, toccando con mano finalmente la reltà. A distanza di tempo, von Trier dichiarerà che Idioti è il suo film più politico. Mai analisi fu più lucida.
Mondo vecchio e mondo nuovo
La decadenza della Vecchia Europa è un concetto più che assodato. Per approfondire tale assunto al giovane Lars von Trier, che si affaccia nel panorama cinematografico dopo gli studi presso il Danish Film Institute, non resta che seguire la via della sperimentazione stilistica. La sua trilogia europea, composta da L'elemento del crimine, Epidemic e Europa, getta le basi del pensiero provocatorio del regista e contemporaneamente ne saggia le possibilità dello stile. Tre opere differenti, tre generi diversi dominati dalla presenza di un idealista destinato al fallimento e del fil rouge dell'ipnosi. Metacinema all'ennesima potenza, omaggi citazioni, giochi col genere e giochi di specchi. Come a dire che i mali del vecchio continente sono talmente incancreniti da rendere necessaria un'analisi degli strumenti prima che delle malattie. La situazione cambia radicalmente quando Lars allunga lo sguardo verso il Nuovo Continente, in direzione dell'America. Quell'America tanto odiata, criticata e derisa in cui il regista non ha mai messo piede, vista la fobia (una delle tante) che gli impedisce di salire su un aereo, ma da cui è morbosamente attratto. Lars si sposta per l'Europa esclusivamente in auto o camper e ricostruisce gli Stati Uniti in un teatro di posa di brechtiana memoria, tracciando segni e scritte sul pavimento col gesso. Il risultato è una pellicola di potenza devastante, la cui visione risulta opprimente e claustrofobica. La critica del regista nei confronti della società americana durante la Grande Depressione è totale e assoluta. Von Trier dipinge il nuovo mondo come un branco di lupi affamati pronti ad approfittare della buona fede e della generosità dello straniero per ridurlo, letteralmente, in schiavitù. In Manderlay lo sguardo si sposta sull'analisi dello schiavismo in Alabama e sull'inutile tentativo del suo superamento attraverso la logica democratica. Allegoria, questa, del fallimento dell'intervento USA in Iraq e del tentativo di esportare la democrazia con la forza. La trilogia è rimasta (a oggi) incompiuta, ma per completarla basterebbe gettare uno sguardo agli sferzanti riferimenti politici contenuti nel precedente Dancer in the Dark, a come il sogno americano di Selma, immigrata cecoslovacca, si trasformi in incubo e come sulla donna, a causa delle proprie origini, ricada il sospetto del comunismo. La messa in scena dell'esecuzione di Selma sul patibolo è più efficace di molti proclami politici contro la pena di morte.
Lars e la new economy
Divertissement stilizzato? Eccentrica commedia sul mondo del lavoro? Il disimpegno non appartiene al DNA di Lars von Trier. Dietro l'apparenza sorniona e il sorriso provocatorio, si nasconde una mente lucida che partorisce forme artistiche sempre più sofisticate volte ad analizzare la società. Dopo il sistema sociale e storico americano, non manca una critica severa nei confronti del capitalismo. Con precisione chirurgica, ne Il grande capo von Trier rappresenta il macrosistema economico che ci governa attraverso l'analisi dei rapporti tra dipendenti di una piccola società informatica danese sull'orlo della cessione. La logica del profitto spinge il proprietario a vendere la sua azienda al miglior offerente, nel caso specifico un ricco finlandese, ma lo stile disinvolto, amichevole e la rilassatezza su cui sono improntati i rapporti umani introdotti dalla new economy gli impediscono di affrontare le proprie responsabilità comunicando ai dipendenti i tagli conseguenti alla cessione. Così il padrone si affida a un attore che interpreti il proprietario, il quale, a sua volta, ben presto si trova invischiato nella rete di relazioni umane inventandosi il grande capo del grande capo. Dubitiamo che Lars von Trier sia mai stato impiegato in un'azienda informatica, ma la descrizione puntuale del suo funzionamento, dei meccanismi e dei rituali che, visti dall'esterno possono sembrare addirittura ridicoli (mai frequentato un corso motivazionale per business manager?), è tanto precisa e pungente da lasciarci pensare il contrario. Come se non bastasse, per la lavorazione del film Lars si inventa un'altra delle sue trovate: l'Automavision. Il regista piazza delle telecamere sofisticate, prive di operatore e governate da un computer che decide, in maniera del tutto casuale, che cosa riprendere. In tal modo si spiegano le inquadrature che talvolta tagliano testa e arti ai personaggi, le luci sbagliate e le stranezze del montaggio. Von Trier toglie ai detrattori perfino il piacere di criticarne le imperfezioni stilistiche, visto che la colpa di tutto ricade su un computer.
La fine del mondo
La coppia, la famiglia, l'ambiente lavorativo, la società sono teatri in cui l'individuo mette in scena la propria pochezza morale. Afflitto dai propri problemi personali e dalla depressione che ciclicamente lo attanaglia, Lars von Trier è in grado di analizzare lucidamente il male che ci circonda senza, però, fornire soluzioni. Per placare le proprie ansie, il regista non ha trovato niente di più terapeutico che confezionare una vera e propria Trilogia della Depressione, composta da Antichrist, Melancholia e dall'atteso The Nymphomaniac ("il cinema è l'unica cosa che non mi fa paura" ha dichiarato in passato). In essa ha incanalato con notevole vis creativa i propri tormenti proiettandoli nei personaggi di Charlotte Gainsbourg, Kirsten Dunst e ancora Charlotte Gainsbourg, viaggiatrici perse nel mondo che vagano alla ricerca di qualcosa che sono destinate a non trovare mai. La ragione? Perché non sono state in grado di conservare il bene più prezioso, perché non sono in grado di trovarlo o semplicemente perché il loro animo è paralizzato. Non sappiamo cosa il cinema di von Trier ci riservi in futuro, ma tra tutte le sue provocazioni quella più inquietante, e universale, finora prodotta riguards il nostro, di futuro. Se, per curare quel malessere interiore che ci divora dal profondo, spingendoci a trasformarci in figurine imperfette e grottesche, fosse necessario fare tabula rasa? L'essere umano è un puntino minuscolo nell'universo con un ego smisurato che lo spinge a leggere la realtà filtrandola attraverso il proprio punto di vista e che lo autorizza a sentirsi al centro dell'attenzione. In realtà basterebbe una semplice casualità, un pianeta che devia la traiettoria di pochi millimetri finendo con l'urtare la terra, per cancellare per sempre i nostri tormenti. Così, tra immagini di struggente bellezza e calma gelida di fronte alla catastrofe (qualità, pare, conservata dai depressi cronici sottoposti a condizioni di forte stress), in Melancholia viene messa in scena la soluzione suprema. L'apocalisse di Lars von Trier è la fine o l'inizio?