Recensione 10 canoe (2005)

Ha un "passo" lento, rilassato ma sicuro, questo 10 canoe: si prende tutto il tempo per dire quello che ha da dire, così come la storia che il vecchio Minygululu racconta al confuso Dayindi vuole il suo tempo per essere raccontata.

Tra fiaba e documentario

Ha un "passo" lento, rilassato ma sicuro, il nuovo lavoro di Rolf De Heer, presentato nella sezione Un certain regard dell'ultimo festival di Cannes. Si prende tutto il tempo per dire quello che ha da dire, così come la storia che il vecchio Minygululu racconta al confuso Dayindi vuole il suo tempo per essere raccontata, più o meno lo stesso che gli uomini del villaggio impiegano per costruire le loro dieci canoe. E' un vero e proprio invito all'uso pieno e senza sconti del tempo, questo 10 canoe: la rievocazione idilliaca di un Eden perduto, narrata da una voce fuori campo come una fiaba (con tato di "C'era una volta..." iniziale), che delle fiabe ha il potere magico e affabulatorio; ma è anche un documentario credibile e prezioso su una società e una cultura che il regista ha imparato a comprendere ed amare, ispirato, secondo le sue stesse parole, da una foto (che ritraeva proprio dieci uomini nelle loro canoe) che aveva un impatto squisitamente cinematografico.

Narrato su due livelli, che alternano la storia di Miniygululu e Dayindi, della costruzione delle canoe e della caccia alle oche, a quella che il vecchio racconta al ragazzo per aprirgli gli occhi sul mondo ed evitargli conseguenze per un crimine non ancora commesso, con il "presente" in bianco e nero e il "passato" (forse mitico, forse semplicemente simbolico) di un colore vivido e potente, il film di De Heer esige che ci si adegui ad esso, che ci si perda nella contemplazione dei paesaggi incontaminati e di un modo di vivere perso tra le ceneri del tempo, che ci si faccia avvolgere dal fascino del suo racconto morale. Un racconto di gelosia e morte, di vendetta e castigo, di leggi che vanno rispettate per preservare la pace e l'integrità del corpo sociale; un racconto, soprattutto, di dignità senza fine, anche (e soprattutto) nella morte.

La narrazione è punteggiata da diversi momenti ironici o grotteschi, e da un tono che dice senza declamare: non potrebbe essere altrimenti per un'opera che ha scelto i colori e le modalità espressive della fiaba, con il suo romanzo di formazione insito nelle pieghe stesse del racconto. E sono gli stessi abitanti del villaggio di Ramingining, nel cuore della comunità degli aborigeni Yolngu, a dargli vita con la loro presenza nel cast: nonostante le resistenze che il regista, per sua stessa ammissione, ha dovuto affrontare per far recitare persone culturalmente poco propense ad accettare un mezzo come quello cinematografico, alla fine la prova (collettiva) degli aborigeni è vera, credibile, parte integrante di questo importante affresco. Un'opera che dilata, e per una volta non è un difetto, i suoi novanta minuti nella mente dello spettatore, costringendolo ad adeguarsi al suo fluire lento e deciso, a vedere e ad ascoltare: primo passo (e forse qualcosa di più) perché si possa capire.

Movieplayer.it

3.0/5