L'amore, e le sue infinite digressioni. L'amore, e il suo istinto dirompente. Lo stesso amore che acceca, e che abbaglia. Trattando l'amore materno come un dramma stilizzato nei canoni del cinema europeo e contemporaneo, The Rapture di Iris Kaltenbäck (esordio), presentato durante la Semaine de la Critique di Cannes 2023, è un film che prende due strade. O meglio, almeno secondo il nostro approccio, sostanziale nel comprendere il linguaggio di Kaltenbäck, ma meno comprensivo nella sua suggerita presa di posizione. Già maturo nella sua costruzione e nella sua scrittura, The Rapture (Le Ravissement, titolo originale), via via che prende forma ci spinge ad una riflessione, strettamente narrativa, e legata al concetto di identità intellettuale.
Perché quella messa in scena da Kaltenbäck non è la solita storia di maternità disfunzionali, è piuttosto una declinazione di ciò che potremmo fare, pur di ottenere ciò che vorremmo. Un pensiero che pretende naturalmente una visione applicata, spostando di conseguenza la valutazione finale, scissa in più pieghe: The Rapture diventa un interessante e scapigliato esordio (mantenendo alta la qualità europea), ma anche uno spunto per ragionare sul valore dell'autore in relazione alla sua opera, e di quanto il suo giudizio possa influire sulla percezione finale dello spettatore.
Il punto di non ritorno
Che vuol dire? Come la protagonista del film, anche The Rapture potrebbe indirettamente manipolare il nostro approccio. Una manipolazione cinematografica, si intende, eppure sostanziale, e sensibile. Proprio come il personaggio principale, Lydia (Hafsia Herzi), ostetrica meticolosa che vorrebbe, anch'essa, avere un figlio. Non ci riesce, in quanto le sue relazioni non girano per il verso giusto.
Quando dà alla luce la figlia della sua amica Salmoé (Nina Meurisse) le cose cambiano: Lydia spaccia per sua la bambina, e anzi dice a Milos (Alexis Manenti, che grande attore), avventura di una notte avuta nove mesi prima, di essere il padre. Una bugia che, piano piano, finirà per allargarsi a dismisura. Una menzogna talmente grande che farà sprofondare Lydia in una dimensione da cui pare non possa (o non voglia?) più uscire.
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La solitudine come filo narrativo
Lampante che il film di Iris Kaltenbäck sia una moderna disamina sulla solitudine come spettro contemporaneo, nonché come vero e proprio disagio psichico. Un disagio che poco alla volta finisce per diventare anche fisico. Notevole in questo caso l'eccezionale lavoro svolto da Hafsia Herzi: la sua luminosità iniziale via via lascia posto ad un'ombra scura, che le muta gli occhi e i contorni. Un approccio materiale alla sceneggiatura, diretto e speculare verso il tema portante: appare complicato oggi diventare madre, proprio per l'indotta solitudine imposta da una società accelerata. Così i sentimenti appaiono incompiuti, indefiniti, indifferenti. Indifferenti come la location scelta dalla regista, un grande città senza nome e senza identità, in cui anime oppresse fanno i conti con una travolgente ed asfissiante pressione.
Ma attenzione, la bambina, di cui si appropria indebitamente Lydia, può essere vista come un pretesto: c'è qualcosa di rotto nella protagonista, qualcosa di irregolare che le farà oltrepassare qualsiasi limite, e dunque le farà squarciare la dimensione che la tiene incollata in un presente grigio e inquietante. Ciononostante, il limite in questione apparirà, come detto, sbilanciato: The Rapture è strutturato tenendo conto quasi esclusivamente il punto di vista, e le ragioni, di Lydia - anche se la voice-over che racconta la storia è quello di Milos -, e le stesse ragioni appaiono supportate anche dalla regista. Visto il tema e l'evoluzione, la scelta appare particolarmente marcata, inusuale, e un filo controversa. Malgrado ciò, l'affetto che Iris Kaltenbäck prova per i suoi personaggi è notevole, costruendoli nel miglior modo possibile. O almeno, secondo il suo (in)sindacabile modo di vedere le cose.
Conclusioni
Quello di Iris Kaltenbäck è un buon esordio. Strutturato, ben girato, ben scritto. Come detto nella nostra recensione, Hafsia Herzi e Alexis Manenti sono due ottimi interpreti, nonché una grande coppia. Se il tema portante è la solitudine, la regista sceglie di illuminare le ragioni della protagonista, suggerendo una smaccata predilezione. Questo potrebbe sbilanciare il tono, e il nostro approccio al film.
Perché ci piace
- Le prove di Hafsia Herzi e Alexis Manenti.
- La fotografia.
- Il senso di alienazione.
Cosa non va
- La regista sembra prediligere le motivazioni controverse della protagonista.