Scrivendo la recensione di The Painted Bird, lungometraggio ceco presentato all'interno del concorso principale di Venezia 76, la mente torna subito alle emozioni contrastanti provate durante la visione del suddetto film: 169 minuti di immagini ben curate ma anche intrise di una crudeltà che rasenta la misantropia allo stato puro, un susseguirsi di sequenze che portano all'esasperazione il concetto di "mai una gioia", mettendo a dura prova la tolleranza degli spettatori (alla prima proiezione stampa a Venezia alcuni sono fuggiti dopo una scena di stupro particolarmente brutale). Un'esperienza estenuante e nel complesso decisamente poco piacevole, al servizio di un film non propriamente brutto ma indubbiamente sadico.
Una trama all'insegna della disperazione
La storia di The Painted Bird si basa sull'omonimo romanzo, dato alle stampe nel 1965 e oggetto di numerose controversie: l'autore Jerzy Kosinski aveva infatti lasciato intendere che la vicenda narrata - l'odissea di un bambino di presunta origine ebraica in un paese non identificato dell'Europa dell'Est durante la Seconda Guerra Mondiale - fosse di ispirazione autobiografica, salvo poi ammettere di aver inventato tutto; fu messa in dubbio anche l'effettiva paternità del libro, scritto in inglese nonostante Kosinski avesse una scarsa conoscenza della lingua all'epoca, e nel 1982 un articolo del Village Voice accusò lo scrittore di plagio, sostenendo che molti dei suoi libri (tra cui quello che ispirò Oltre il giardino) fossero copiati da romanzi polacchi sconosciuti al pubblico anglosassone.
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Al netto di tali dispute, il libro gode di un certo apprezzamento per come affronta il tema della disumanità tramite gli occhi di un bambino. È lui che seguiamo per tutta la durata del film, inizialmente affidato a una zia perché i genitori sono in fuga dalla persecuzione antisemita. Dopo la morte della donna, lui comincia il suo viaggio fatto di mille ostacoli, che vanno dalla semplice ostilità di chi lo incontra a vere e proprie sciagure, tra pestaggi, violenze sessuali e tentativi di omicidio. Il tutto reso in un bianco e nero nitido che vorrebbe dare al lungometraggio una patina autoriale ma risulta solo un espediente artificioso, poiché le poche inquadrature davvero suggestive cedono rapidamente il posto alla disgrazia di turno: l'impressione dominante è quella di un canovaccio a mo' di lista della spesa, che periodicamente tira fuori un nuovo momento "forte" al fine di destabilizzare gli animi sensibili. Un'operazione di per sé non riprovevole se non fosse che, malgrado la lunghezza del film, ogni episodio è liquidato con una rapidità tale da rendere nulla qualsiasi forma di empatia con il ragazzo o i pochi che cercano veramente di aiutarlo.
Un viaggio disperato
L'empatia di cui sopra è, se non nullificata, almeno estremamente limitata anche perché, salvo per il personaggio principale, nessuno appare abbastanza a lungo da generare una tale reazione nello spettatore (qualora si tratti di una figura positiva, poiché sono quelle negative, comunque scolpite con l'accetta, ad avere uno spazio maggiore). Per compensare questa cosa, il regista ceco Václav Marhoul ha affidato alcuni ruoli-chiave ad attori internazionali di un certo peso: Udo Kier, Stellan Skarsgård, Barry Pepper, Julian Sands e un irriconoscibile Harvey Keitel, tutti abbastanza sprecati e per lo più inibiti sul piano recitativo poiché la lingua parlata nel film è l'interslavo, una sorta di esperanto concepito per rendere più facile la comunicazione tra i popoli di paesi slavi diversi e che in questo caso, a livello teorico, serve a rendere l'idea dell'universalità degli orrori mostrati, senza precisare di quale regione si tratti. Condiscono, in un modo o nell'altro, la storia del giovane personaggio principale, il cui interprete Petr Kotlár, presente in praticamente tutte le inquadrature e costretto a recitare senza parole, è il principale punto di forza di un film non privo di motivi di interesse, ma in fin dei conti troppo squilibrato e freddo per poter pensare a una vera vita in sala fuori dal circuito festivaliero.
Conclusioni
Arrivati in fondo alla recensione di The Painted Bird, l'impressione che ci lascia è quella di un'opera riuscita a metà, i cui scopi nobili sono indeboliti da una regia fredda che, per gran parte della mastodontica durata del film, confeziona un momento "estremo" dietro l'altro con fare schematico e macchinoso, senza lasciar respirare le singole sequenze. Notevole il giovane protagonista, circondato da professionisti che sembrano un po' spaesati.
Perché ci piace
- Il giovane Petr Kotlár è notevole.
- La fotografia in bianco e nero dà un che di suggestivo ad alcune inquadrature.
Cosa non va
- La durata generosa rende quasi insostenibile la brutalità continua del film.
- I personaggi secondari sono anonimi in tutti i sensi.