Ci sono film che hanno la stessa forma dei posti in cui sono ambientati. The Lighthouse è uno di questi. Così simile a quella scala a chioccola che conduce verso la luce di qualsiasi faro. Peccato che il percorso delineato da Robert Eggers proceda al contrario. Dal bagliore al buio. Dalla ragione al delirio più nero. Alla sua opera seconda dopo lo splendido The Witch, il talentuoso regista americano ha confezionato un thriller orrorifico subdolo e ricercato, che insinua poco per volta nelle labili menti di due uomini costretti a convivere su uno sperduto isolotto a largo delle coste del New England.
Solitudine, mare in tempesta, acqua imbevibile, cibo immangiabile, ossessioni e deliri che si danno il cambio di guardia. The Lighthouse corrode poco per volta la sanità mentale dei suoi protagonisti e le certezze dello spettatore, anche lui in balia di una narrazione maniacale e sadica. Maniacale quando si dedica con dovizia di particolari al rapporto malsano tre due anime in pena. Sadica quando diventa a tratti troppo compiaciuta, sguazzando in mezzo a tutto quel malessere fisico e psicologico. Ecco, The Lighthouse può essere definito in tanti modi, ma non è un film che lascia indifferenti. Robert Eggers conosce il suo valore, non pecca di falsa umiltà, e ha girato un film che trasuda personalità da tutti i pori. E quando un film ha così tanta personalità, lontano anni luce da una medietà capace di accontentare molti, è destinato a dividere.
Dal giorno della sua presentazione allo scorso Festival di Cannes (nella selezione Quinzaine) The Lighthouse non ha conosciuto mezze misure. Capolavoro, vuoto esercizio di stile, consacrazione di un fenomeno, passo falso di un regista presuntuoso. Pareri opposti si sono alternati in una tempesta critica in cui è difficile orientarsi. Oggi, in vista della sua uscita ufficiale anche in Italia prevista per metà maggio (purtroppo solo in home video e al momento solo in DVD), proviamo a prendere in mano la bussola per capire meglio da che parte stare. E forse, in quella scala a chiocciola sospesa tra la luce e l'oscurità, noi ci fermeremo a metà strada.
The Lighthouse, la recensione: la follia e la paura dell'ignoto per Robert Eggers
Luce: cosa funziona
1. Messa in scena
Dalla foresta silente di The Witch all'inospitale isola sperduta di The Lighthouse il passo è breve. Eggers sa bene come trasformare l'ambientazione in una co-protagonista, con il contesto che vincola di prepotenza tutti suoi personaggi, costringendoli a scavare dentro di sé (con risultati spesso spiacevoli). Tutto questo avviene sempre per un solo motivo: una grande messa in scena. Dal punto di vista registico, della cura formale e della confezione, The Lighthouse è un piccolo gioiello. Dalla fotografia capace di restituire un bianco e nero ispiratissimo all'insolito formato dall'effetto opprimente (1,19: 1), passando per movimenti di macchina mai banali, Eggers si conferma un regista sapiente nell'immergere i personaggi dentro spazi claustrofobici. Spazi che, per quanto spaventosi, invitano lo spettatore ad abitarli per un paio d'ore. Questo effetto immersivo è dovuto a una regia seducente, che avvolge il pubblico dentro luoghi che diventano subito familiari e riconoscibili. Senza dimenticare una serie di inquadrature che, alternando campi lunghi e dettagli strettissimi, rimandano alla grammatica dei film degli anni Trenta, dando a The Lighthouse un piacevole sapore antico. Pura gioia per ogni cinefilo.
2. Sonoro
Se l'aspetto visivo di The Lighthouse trasuda amore cinefilo in ogni sequenza, il sonoro non è affatto da meno. Anzi. Se il film riesce a calarci nelle sue tormentate atmosfere notturne, a farci percepire l'umido, lo squallore del contesto e la solitudine a cui Howard e Wake sono condannati è anche grazie a un sound design raffinato. Eggers lascia (almeno all'inizio) molto spazio a silenzi riempiti da suoni ambientali emblematici: lo scricchiolio delle doghe marce, gli spifferi dalle finestre, la masticazione sgraziata dello sciatto Wake e i peti irriverenti del vecchio balordo sono piccoli dettagli a loro modo emblematici. Tutti evidenziati con grande furbizia dal regista. Però, in The Lighthouse c'è un suono particolare che diventa qualcosa di più di un rumore perennemente in scena: la sirena della nave. Se inizialmente il suono rimbomba nelle orecchie perché c'è effettivamente una nave in scena (quella che accompagna i due guardiani al faro), col passare del tempo la sirena assume sempre di più la forma di un'illusione sonora, di un miraggio uditivo. Un suono lontano di una speranza solo immaginata. Un'eco sempre più lontana e rarefatta, pronta a diventare ossessione prima e disperazione poi.
3. Come Prometeo
Eggers ha costruito il suo faro a suon di racconti, miti e leggende. Insomma, alla base di The Lighthouse ci sono una serie di narrazioni e di archetipi che ne costituiscono le fondamenta. Se tutto è partito da un suggestivo racconto incompiuto di Edgard Allan Poe (chiamato sempre The Lighthouse), Eggers ha inserito nel film anche una serie di leggende marinaresche che danno voce e forma al fitto sottobosco di superstizioni che hanno da sempre segnato la vita di chi ha vissuto in mare (ad esempio il rispetto per gli uccelli che sarebbero reincarnazioni di marinai defunti). Però, il mito più evidente scomodato da Eggers è quello di Prometeo. Colui che, nella mitologia greca, osò sfidare gli dei rubando loro il fuoco della Conoscenza per portarlo finalmente nel mondo degli uomini. L'atroce destino di Prometeo è un altro richiamo lampante che non stiamo qui a descrivere per non cadere nello spoiler, ma il parallelismo creato da The Lighthouse ci è sembrato riuscito e ispirato. Nel film la luce del faro rappresenta il fuoco sacro della Conoscenza, incarna in qualche modo una forma di potere e dominio. E così il vecchio Wake ne abusa, beandosi del suo accesso esclusivo alla parte più alta del faro. Tutto alla faccia del giovane Howard, che non può avvicinarsi alla fonte luminose. In tal senso Eggers è impietoso nel raccontarci la sopraffazione come dinamica quasi innata nei rapporti umani. Bastano due persone perché qualcuno voglia manipolare, controllare e dominare l'altro. E così in quel crescente malumore di Howard, che esplode nel finale, c'è la stessa sfida all'autorità che Prometeo provò nei confronti degli dei. Un parallelismo metaforico che incarna un sentimento atavico e mostra il lato più ispirato di un film dove ci sono anche delle ombre.
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Ombre: cosa non va
1. Eccessi evitabili
Gabbiani strambi, acqua che diventa sangue melmoso, visioni disturbanti. The Lighthouse va continuamente alla ricerca di momenti stranianti, volti a destabilizzare lo spettatore. Se nella prima parte le stranezze sono seminate qui e là con la giusta misura (come se fosse una scacchiera ben apparecchiata prima di una partita in "bianco e nero"), col passare dei minuti Robert Eggers eccede e dimostra di voler sconvolgere il pubblico in maniera troppo forzata e poco sincera. In fin dei conti The Lighthouse solletica il terrore, ma non affonda mai il colpo. A tratti è straniante, è vero, ma mai davvero disturbante. In questo The Witch è stato più subdolo, perché gli elementi malefici erano più suggeriti che mostrati. Il che lo rendeva un film particolarmente inquietante proprio per il saggio uso della suspense e per una riuscita (proprio perché misurata) rappresentazione del Male. The Lighthouse, invece, deraglia, straborda, esagera. Troppo spesso solo per il gusto di farlo. Masturbazioni, conati di vomito, cadaveri senza un occhio e mostruosità più o meno umane si manifestano di continuo senza sconvolgere mai. Se Eggers avesse lavorato più di sottrazione che di addizione, se avesse preferito togliere qualche stramberia gratuita, sicuramente avrebbe peccato meno di arroganza.
2. Lovecraft non abita qui
E arriviamo a un altro punto dolente del film: l'uso del sovrannaturale. Eggers evita la retorica scontata de "i veri mostri siamo noi" (alla fine la morale è quella, ma non è affatto didascalico nel dircelo), eppure si fa tentare dalla ghiotta occasione di citare un altro grande maestro dell'orrore più nero: Lovecraft. Purtroppo, però, non basta inserire un tentacolo per scomodare la poetica del grande autore americano. La letteratura lovecraftiana, il cui valore è stato riconosciuto molti anni dopo la morte del celebre autore, ha spesso ispirato racconti in cui l'uomo è messo davanti all'abisso dell'ignoto. Una Natura ostile, severa, a tratti sublime, popolata da esseri mostruosi che fanno sentire l'essere umano un granello di sabbia all'interno di un universo enorme, sconfinato, tremendo proprio perché inconoscibile. In The Lighthouse a funzionare davvero è solo il conflitto tra i due personaggi, ma a livello introspettivo il film latita parecchio. Nonostante il logorio interiore sia un tema del film, questo è sviluppato in modo molto approssimativo. E il rapporto Uomo-Ignoto sfocia in un'occasione mancata, in un "vorrei, ma non posso" alquanto evidente. Insomma, Eggers si dimostra ancora una volta ammiccante nell'inserire mostri alquanto iconici, ma senza le spalle larghe per giustificarne appieno la presenza troppo superficiale e maliziosa.
3. Scrittura schizofrenica
Ed eccoci nell'ultima nota dolente del film: la scrittura altalenante. Un copione ondivago che si ripercuote, per forza di cose, anche sulle interpretazioni volenterose di Willem Dafoe e Robert Pattinson. The Lighthouse parte affidandosi a pochi dialoghi, sempre molto misurati, efficaci e taglienti. Poi, col passare dei minuti, il dono della sintesi abbandona l'isola sperduta lasciando spazio a una verbosità eccessiva, troppo artificiosa, che toglie al racconto autenticità e presa sullo spettatore. Le frasi roboanti messe in bocca a due uomini semplici sono il vero fattore straniante di un film che mette in difficoltà anche i due attori spinti forse troppo sopra le righe. In ogni caso, tra pregi e difetti, ci teniamo a chiudere questa nostra analisi di The Lighthouse con una precisazione fondamentale. Ben vengano dei film imperfetti come questi. Perché sono opere volenterose, piene di potenziale, a volte fuori controllo (è vero), ma figlie di visioni autoriali potenti, profonde, lontane mille nodi dalla banalità. Per cui, caro Robert Eggers: vento in poppa. E avanti con la prossima folle sfida.