È stato già scritto e detto tutto? No, non è vero. È un paradigma a cui non vogliamo e non possiamo credere. Del resto, la comunicazione è in costante mutamento, riflettendo spunti - magari archetipi - legati alla realtà. Insomma, c'è sempre una storia nuova da raccontare. Ci crediamo. E ci crediamo pure quando tutto, invece, sembra remare contro, propendendo verso una standardizzazione del linguaggio, dei temi, delle sfumature. Perché, pur apprezzabile nell'ambiziosa produzione (su più livelli, basti pensare che tra i producers c'è Michael Fassbender), The Kitchen è marcatamente (ed esageratamente) derivativo di un mondo distopico che, alla lunga, diventa fine a se stesso, ricalcando impianti che ben conosciamo (dalla letteratura al cinema di genere), se non innovato nei toni e nelle scelte.
A leggere i credits, tra l'altro, restiamo sbalorditi, essendo The Kitchen, arrivato su Netflix, l'esordio alla regia di Kibwe Tavares e di Daniel Kaluuya (sì, lo stesso protagonista di Nope o di Scappa - Get Out). Un esordio importante, quindi, che però gira senza cinetica, fermo in una storia introspettiva e umana, teoricamente adatta ad un panorama distopico. Teoricamente perché The Kitchen, a tutti gli effetti, è un film teorico, e poco approfondito, mascherando il sacrosanto spirito pop (del resto, è un prodotto trasversale, da top 10 streaming) sotto una coltre autoriale poco efficace, e poco coinvolgente.
The Kitchen, la trama: una Londra divisa tra ricchi e poveri
Essenzialmente, The Kitchen è un film di grandi premesse. Una storia di riscoperta, di battaglie, di scenari sci-fi, in cui il futuro prossimo è strangolato da una divisione sociale marcata e spaventosa. Le premesse, poi, si legano ai toni: un viaggio umano, un romanzo di formazione, uno specchio che riflette l'elaborazione del lutto. Le premesse, però, se pur allettanti, si fermano sul più bello, senza una tridimensionalità che avrebbe reso il film un esordio da ricordare. Siamo in una Londra futuristica e irriconoscibile. Il cielo è ancora più plumbeo, e il confine tra ceti sociali è ormai insostenibile.
Anzi, per volere del governo, le aree popolari sono sempre più soggiogate da una sorta di multinazionale distopica (una strana eminenza grigia, che resta sullo sfondo), che ha azzerato qualsiasi sussistenza. In una di queste zone, chiamata Kitchen, vive Izi (Kane Robinson), in attesa di trasferirsi in una zona lussuosa. Lavora per la stessa multinazionale che controlla lo Stato, occupandosi nello specifico di defunti: l'azienda, infatti, crema i morti trasformandoli in piante - con il dubbio di dove queste piante, poi, vadano a finire. Quando muore una donna che conosceva, Izi incontra il figlio Benji (Jedaiah Bannerman). Tra i due nasce un rapporto fortissimo; un rapporo che si legherà alla resistenza degli abitanti del Kitchen, pronti ad alzare barricate contro i costanti attacchi della polizia.
Ambizione, sì, ma un film sci-fi distopico stanco già prima di iniziare
Dicevamo, progetto ambizioso quello di The Kitchen, tanto da essere stato selezionato, in fase embrionale, dal Sundance's Screenwriting and Directing Lab. Presentato al BFI di Londra, con uscita selezionata nei cinema britannici (ad anticipare la release di Netflix), il film di Kibwe Tavares e di Daniel Kaluuya si avvale quasi interamente di una scenografia ricreata per intero, portando quasi al minimo la CGI. Un punto a favore, in un'epoca dove tutto è avvolto da green screen. Ed è interessante anche il rapporto tra Izi e Benji: poche parole, sguardi, e certezze che, scena dopo scena, confluiscono nella riuscita inquadratura finale.
Parlavamo, però, di premesse, e di quanto le stesse fossero solo apparenti, finendo per scheggiarsi in un distopic movie ancorato a certi elementi che, alla lunga, risultano addirittura superati (le multinazionali, per esempio), o ampiamente connessi a quei topoi che hanno retto decenni di narrazione sci-fi (l'oppressione dei ricchi verso i poveri). Per questo, in apertura di recensione, parlavamo di originalità, e di quanto l'originalità sia (o dovrebbe essere) l'elemento principale per la riconoscibilità, in particolar modo se parliamo di esordi alla regia. Perché, nei suoi abbondanti novata minuti, The Kitchen sembra correre restando immobile (i primi quarantacinque minuti, in particolare); sembra cinema colto, con la voglia di superare le regole dello streaming, tuttavia risulta formattato in una dimensione visiva che poco riesce ad essere portavoce di un cambiamento che sembra non arrivare, preferendo tastare un terreno conosciuto (e consumato) piuttosto che scoprirne di nuovi.
Conclusioni
L'esordio alla regia di Kibwe Tavares e di Daniel Kaluuya? Come scritto nella recensione, dietro una certa autorevolezza e dietro una certa ambizione, si nasconde uno sci-fi distopico purtroppo standardizzato rispetto alle produzioni (soprattutto streaming) contemporanee, rifugiandosi dietro elementi di comfort senza avere il giusto estro o la giusta personalità.
Perché ci piace
- Una struttura artigianale, poco VFX.
- Il rapporto tra i due protagonisti.
Cosa non va
- Il concetto distopico non aggiunge nulla al genere, anzi.
- Una formattazione generale poco coinvolgente.
- Una seriosità d'intenti che si sposa poco la sua indole pop.