You can't always get what you want/ But if you try sometime you find/ You get what you need
È stata, senza timore di iperboli, uno dei personaggi più complessi, carismatici, emozionanti che la televisione ci abbia regalato da almeno un decennio a questa parte. La "brava moglie" per eccellenza, la madre di famiglia, ma anche l'outsider determinata a rientrare nell'arena legale, la paladina pronta a battersi per i propri ideali e per la difesa dei più deboli e, non ultimo, la spregiudicata "principessa del foro" capace di usare tutte le armi a sua disposizione pur di ottenere ciò che desidera. Alicia Florrick è tutto questo e molto altro.
Per sette stagioni, e un totale di ben centocinquantasei episodi, l'avvocato interpretato da una strepitosa Julianna Margulies ci ha tenuti inchiodati davanti allo schermo, trasformando The Good Wife (prodotta da un gigante come Ridley Scott) nella serie di punta della CBS e nel prodotto di maggior valore nel panorama della serialità dei grandi network. Merito ovviamente della sua splendida protagonista, ricompensata con un Golden Globe e due Emmy Award come miglior attrice per la parte di Alicia, ma pure di Robert e Michelle King, i due coniugi creatori e showrunner della serie, decisamente abili nel coniugare un'impressionante densità tematica con le necessarie attrattive per un pubblico generalista (una media di dodici milioni di spettatori a puntata negli USA, tenendo conto pure dei DVR, rimasta costante nell'arco di sette anni). E domenica scorsa, con End, The Good Wife ha raggiunto la sua definitiva conclusione, con un epilogo per molti versi bizzarro e spiazzante.
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Aspettando il verdetto
Inutile ignorare l'elefante nella stanza, quindi tanto vale prendere subito di petto il nucleo di questo season finale: quegli ultimi due minuti sulle note della canzone Better di Regina Spektor, ovvero la presagita, inevitabile climax che ha preso però una direzione del tutto inaspettata. Uno schiaffo - letterale - che corrisponde a un simbolico schiaffo al cosiddetto fan service; un epilogo coraggioso, senza dubbio, ma che purtroppo non ha risolto dubbi e perplessità su una settima stagione palesemente meno riuscita rispetto alle gloriose annate precedenti. E a tal proposito, facciamo un passo indietro e procediamo con ordine (da qui in poi, ci teniamo a sottolinearlo, non mancheranno spoiler sull'episodio in questione, quindi vi consigliamo la lettura solo dopo la visione), partendo appunto da quella storyline che a cominciare dalla quattordicesima puntata, Monday, ha costituito la "trama orizzontale" di The Good Wife: l'indagine dell'FBI e il processo contro Peter Florrick (Chris Noth), Governatore dell'Illinois, accusato di intralcio alla giustizia in uno dei primi casi durante la sua attività di Procuratore di Stato.
Il penultimo episodio, Verdict, incentrato sulla lotta in tribunale fra il team di Peter e il magistrato Connor Fox (Matthew Morrison, ex star di Glee), si chiudeva sul cliffhanger del titolo: l'annuncio di un verdetto della giuria subito dopo la decisione di Peter di accettare il patteggiamento e quattro anni di carcere. End riparte così dal processo, inserendo in extremis elementi inediti correlati a quella vecchia inchiesta per omicidio: proiettili che scompaiono e ricompaiono nell'archivio delle prove, testimonianze a sorpresa, possibili sospetti, perfino una misteriosa suoneria che fa capolino nella registrazione di una telefonata al 911. E qui già sorgono i primi intoppi: perché se The Good Wife è una serie che ha sempre unito la concisione dei suoi "plot verticali" con una precisione geometrica nella messa in scena dei singoli casi, mai come ora il processo a Peter e la relativa indagine sono apparsi al contrario confusi, lacunosi, pieni zeppi di piste intraprese e subito abbandonate (la fantomatica suoneria, dettaglio che sembrava risolutivo, viene dimenticata in pochi minuti), mentre tutti i personaggi si affannano a ripetere che "questo è un caso insolito" (forse perfino troppo).
"It was romantic because it didn't happen"
Tale problema, tuttavia, non nasce nel finale, ma è piuttosto una 'zavorra' che The Good Wife si porta appresso già da otto puntate: perché, ammettiamolo, il processo (un altro) contro Peter, e quel non ben precisato omicidio di cui non avevamo mai sentito parlare prima di allora, sono confluiti in un plot a cui mancava il mordente dei momenti migliori di The Good Wife, nonché l'investimento emotivo della stessa Alicia (figuriamoci dunque quello del pubblico). Coinvolta nel processo solo in virtù del tiepido affetto per Peter, dal quale si accinge a divorziare, Alicia è spinta ora a un bivio nella sua vita privata: restare accanto a un marito travolto dalle difficoltà o cogliere l'opportunità di un nuovo amore accanto al detective Jason Crouse (Jeffrey Dean Morgan). "Tu tendi a confondere responsabilità e amore", dichiara la sua collega e saggia confidente Lucca Quinn (Cush Jumbo), new entry della settima stagione confinata però al ruolo di spalla; mentre Alicia, consapevole di trovarsi in una fase pivotale della propria esistenza, si prefigura gli ipotetici futuri con i due uomini ai quali è più legata.
E in questo dilemma (ma non era già stato ampiamente risolto?) fra Peter e Jason, fra la vocazione ad essere una good wife fino in fondo e l'anelito ad una libertà che potrebbe far rima con felicità, ad offrirsi come "voce della coscienza" della nostra Alicia interviene una 'presenza' d'eccezione: l'indimenticato Will Gardner (Josh Charles). Ucciso a colpi di pistola nel corso della quinta stagione, in uno dei più memorabili episodi dell'intera serie, Will si materializza nella fantasia di Alicia per un estremo, doveroso commiato: quello dell'ex amante assieme al quale rivivere, sebbene solo per pochi istanti, il rimpianto per un amore mai pienamente realizzato. "Era romantico perché non è mai avvenuto", osserva il fantasma di Will, poco prima che Alicia faccia la propria scelta. E i dialoghi Will e Alicia, benché lontani dall'approccio rigorosamente realistico di The Good Wife, spiccano fra le sequenze più malinconiche e coinvolgenti dell'episodio.
La "questione morale"
Se l'aspetto preminente relativo al percorso di Alicia in End è identificabile nel plot sentimentale (come del resto già nelle puntate più recenti), Robert e Michelle King trovano il tempo di toccare anche altri temi e personaggi, seppure in maniera abbastanza frettolosa. Di Cary Agos (Matt Czuchry), storico ex collega di Alicia, scopriamo che ha smesso i panni dell'avvocato per dedicarsi all'insegnamento; sfortunatamente il personaggio di Cary, fondamentale fino alla prima metà della scorsa stagione, in quest'ultimo capitolo di The Good Wife è stato tenuto ai margini della trama, fino a renderlo pressoché ininfluente (e la sua esclusione dallo studio legale di cui era socio continua a non avere senso). Il previdente Eli Gold (Alan Cumming), nel frattempo, è pronto ad archiviare la carriera politica di Peter - ormai danneggiata in maniera irreparabile - per puntare invece su quella di Alicia: un potenziale futuro, per la signora Florrick, a cui pero è riservato solo un rapido accenno, senza che nemmeno Alicia ne sia messa al corrente (insomma, uno spunto tardivo e lasciato irrisolto).
Che la ex "Santa Alicia" abbia acquisito la spregiudicatezza e il cinismo necessari per prendersi la sua rivincita alle prossime elezioni? Sembrerebbe di sì, a giudicare dallo snodo più problematico, sul piano morale, di questo season finale: ovvero, è lecito compromettere la professionalità di un individuo e la serenità del suo matrimonio al fine di ottenere una vittoria in tribunale? È la strada seguita senza alcuna esitazione da Alicia nel tentativo di salvare Peter: far sottoporre l'esperto di balistica Kurt McVeigh (Gary Cole) a un feroce controinterrogatorio da parte di Lucca, smascherando una relazione extraconiugale dell'uomo (altro coniglio tirato fuori dal cilindro, come un comodissimo deus ex machina) al cospetto di sua moglie Diane Lockhart (Christine Baranski). L'espressione di incredulo sdegno dipinta sul viso della donna e la gelida fierezza con cui abbandona l'aula di tribunale pesano come macigni, e permettono per l'ennesima volta a Christine Baranski di dimostrarsi un'attrice sopraffina (e dopo sei nomination consecutive, un eventuale Emmy Award sarebbe sacrosanto).
La chiusura del cerchio
E arriviamo quindi alle scene conclusive dell'episodio, dove, in un'ideale struttura ad anello, gli autori ci riportano all'analoga sequenza d'apertura nel pilot, sette anni e centocinquantacinque puntate fa. Il nostro primo incontro con The Good Wife consisteva infatti nella conferenza stampa in cui Peter, affiancato dalla "brava moglie", annunciava la sua imminente incarcerazione. Sette anni dopo la storia si ripete: Peter deve pronunciare un altro, sofferto discorso sullo stesso tenore, con la mano stretta in quella di Alicia. Stavolta, però, c'è una significativa variante: la donna, credendo di vedere l'ombra di Jason, lascia la mano del marito e rincorre l'uomo nel corridoio, salvo scoprire che si tratta di qualcun altro. Jason, resosi all'improvviso irrintracciabile, è forse sparito dalla vita di Alicia, aggiungendosi alla lista delle occasioni perse e delle passioni mai vissute? Il finale lascia sospesa questa domanda, così come quella sulla sorte lavorativa di Alicia: difficile immaginarla ancora socia di Diane dopo averla pugnalata alle spalle (con tanti saluti al prestigioso studio tutto al femminile).
Ed è proprio Diane, negli ultimissimi istanti della puntata e della serie, a porre Alicia a confronto con la persona che è diventata. Il rapido, silenzioso faccia a faccia fra le due donne e lo schiaffo inferto da Diane sono il vertice di tensione dell'episodio, e in quel clamoroso gesto è racchiusa l'evoluzione di Alicia: una fragile eroina dei nostri tempi, da sempre animata da un innato senso di giustizia, costretta a fronteggiare la responsabilità e il peso delle proprie azioni. Nella sua semplicità si tratta di una sequenza poderosa, tanto più perché rievoca lo schiaffo lanciato nel pilot da Alicia al marito infedele. Adesso Alicia è passata dalla parte della tradita a quella della traditrice (come anche i coniugi King hanno ribadito commentando il finale): ma questo momento avrebbe avuto una portata emotiva ancora più forte se fosse stato maggiormente coerente con la parabola complessiva del personaggio.
Alicia, tuttavia, non è il Walter White di Breaking Bad né la Ellen Parsons di Damages (per restare in ambito legal), vale a dire un individuo benevolo condotto a una progressiva perdita dell'innocenza, e il suo cammino è assimilabile piuttosto ad una maturazione positiva in tutto e per tutto: è il motivo per cui il compromesso morale della donna, nell'ultimo atto della sua storia, e il gesto eclatante di Diane non trovano una perfetta collocazione nel contesto narrativo globale, apparendo in qualche modo come una forzatura, o magari come una svolta importante che non avrebbe meritato una brusca interruzione. Alicia, in compenso, dimostrerà di saper incassare anche questo smacco: sconfitta, almeno in parte, ma con la prontezza sufficiente a ricacciare indietro le lacrime, aggiustarsi le pieghe dell'abito e rialzare la testa, ieri come oggi, con la stessa, stoica resistenza. Una delle ragioni per le quali, in sette anni, non abbiamo mai smesso di ammirarla e di amarla.
Movieplayer.it
3.0/5