This country is worth fighting for. It always was. And our enemies want to stop voting from happening. That's not just galling - that's the end of America. And we can't let that happen. Eli, I need you to fight the good fight.
Prendiamo in prestito le parole di Diane Lockhart dalla sesta ed ultima stagione di The Good Fight, lo spin-off di The Good Wife conclusosi anche in Italia su TIMVISION il 23 novembre. Un finale agrodolce e pieno di significato, così come la seconda metà della stagione, che è riuscito a chiudere tutte le questioni in sospeso per i personaggi, aprendo le giuste porte al futuro, un futuro incertissimo proprio come quello che stiamo vivendo nella realtà. Un espediente che ci fa riflettere sull'eredità che The Good Fight lascia alla serialità televisiva, come uno degli ultimi baluardi della tv generalista dopo la fine di This Is Us qualche mese fa.
La fine di un'era
7 stagioni e 156 episodi per The Good Wife, 6 stagioni e 60 episodi per The Good Fight. Tantissime ore di girato per un universo narrativo costruito puntualmente dai coniugi Robert e Michelle King, che si è sempre distinto per l'estrema coerenza e per il fortissimo legame con l'attualità. Iniziato come un legal drama con una storia orizzontale forte, ha sviluppato sempre più questo aspetto: la storia di una brava moglie, Alicia Florrick, interpretata da Julianna Marguiles, che sceglie di restare accanto al marito, un politico, dopo che è stato accusato e arrestato per essere andato a letto con delle prostitute. Un matrimonio di facciata, da cui negli anni si è resa sempre più indipendente, tornando a lavorare come avvocato e riprendendo in mano le redini della propria vita, fino al finale in cui ha deciso di rimanergli nuovamente accanto, come da titolo dello show.
Chiusa quella parentesi, i King pensano a uno spin-off sequel, che traghetti alcuni personaggi, a partire da quello femminile più forte della serie madre dopo Alicia, Diane Lockhart (Christine Baranski) in una nuova avventura. Uno studio all black per mostrare tutte le contraddizioni dell'attualità e non uno studio al femminile di cui inizialmente parlavano i personaggi nel finale di The Good Wife. Un tema, quest'ultimo, tornato nel finale di The Good Fight in cui Diane è pronta per la nuova avventura nella succursale di Reddick & Ri'chard a Washington DC dedicata solamente a casi che riguardino le donne. Alicia e Diane: due donne diametralmente opposte al centro delle due storie principali, che si fanno via via sempre più corali, dando importanza, scrittura sopraffina e interpretazioni magistrali anche alle guest star di turno, che per questo rimarranno negli annali della televisione e hanno vinto svariati Emmy e Golden Globe nonostante le loro brevi performance. Tra i tantissimi nomi che potremmo citare, la Elsbeth Tascioni di Carrie Preston e il Louis Canning di Michael J. Fox, entrambi apparsi anche nello spin-off.
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Un finale esplosivo
Lo spin-off rispetto alla serie madre ha avuto sempre un problema di identità a sé stante, che ha continuato a cercare negli anni ma non è sempre riuscito a trovare fino in fondo. È sicuramente migliorato nella seconda metà, quando nonostante i continui cambi di cast in corso d'opera (Rose Leslie, Cush Jumbo e Delroy Lindo su tutti), ha trovato delle storyline orizzontali forti per ogni stagione. Il Memo 618 della quarta stagione, il tribunale fittizio della quinta (che torna nell'ultimo ciclo grazie al personaggio di Phylicia Rashad) e la realtà assurda che stiamo vivendo nella sesta. Una realtà fatta di proteste che sembrano non finire mai, attacchi di suprematisti bianchi e gruppi razzisti e antisemiti, in una Chicago continuamente preda della nebbia dei lacrimogeni e del rosso delle fiamme, quasi apocalittica, che sembra un mondo "a parte" perennemente sullo sfondo rispetto agli interni degli uffici e dei tribunali dove i personaggi si rifugiano e vivono. Un mondo pieno di violenza - complice l'essere andati in onda su CBS All Access, il servizio streaming di CBS poi diventato l'attuale Paramount+ Usa - che diventa ferocissima in questi ultimi dieci episodi, con morti davanti agli occhi dei protagonisti per farli "svegliare" una volta per tutte. Il paradosso di alcune situazioni, come il multimiliardario proprietario di Chumhum (corrispettivo di Google) che vuole comprarsi il Partito Democratico statunitense, in realtà è figlio del paradosso reale in cui stiamo vivendo, e in cui una cosa del genere potrebbe accadere (pensiamo a Elon Musk che forse farà chiudere Twitter).
Incredibilmente però è proprio con la seconda metà della sesta ed ultima stagione che, recuperando tutte le storyline lasciate in sospeso, Robert King e Michelle King sono riusciti nel miracolo: dare una chiave di lettura al tutto, rintracciabile proprio nel discorso pungente e appassionato in apertura di articolo, che Diane fa a Eli (Alan Cumming), altro personaggio comune ai due universi insieme alla figlia Marissa (Sarah Steele). Tanto che anche la sigla di The Good Fight, che vedeva vari oggetti esplodere senza un apparente motivo, acquista finalmente un senso: quelli dei crediti sono in realtà tutti gli oggetti degli uffici dello studio, che vengono definitivamente presi di mira dai suprematisti bianchi e colpiti durante un vero e proprio attentato, da cui per fortuna i protagonisti escono illesi. E quindi il titolo: la "buona lotta", la "giusta battaglia" è qualunque siamo sicuri di vincere, perché non ci si deve arrendere alle ingiustizie del mondo, nonostante sembri che possa sempre andare peggio, come scherza Liz Reddick (Audra McDonald) nel finale. E se c'è una cosa che ci hanno insegnato gli ultimi anni nella vita reale, tra pandemia, guerre, cambiamento climatico, crisi economica e così via, è che può davvero andare sempre peggio.
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L'eredità di The Good Wife e The Good Fight
Cosa ci lasciano quindi in eredità The Good Wife e The Good Fight? Oltre alla voglia di combattere e di riscatto, prima di tutto per noi stessi, la consapevolezza che sarà difficile ritrovare in tv una serie così lucida e attenta a quanto accade nel mondo reale, dagli Stati Uniti all'altro capo del mondo, a volte precorrendo addirittura i tempi, altre volte giocando furbescamente con ciò che è reale o ciò che lo è di meno. Come le incursioni di una sedicente Melania Trump nello spin-off, a proposito dei paradossi citati prima. Ai King del resto ha sempre intrigato la fantapolitica tanto quanto quella vera, dati alla mano, e mescolare le due realtà nel loro universo non ha sempre funzionato, ma ci ha regalato sicuramente dei momenti memorabili. Così come i dialoghi, curati, realistici, a volte asciutti a volte eloquenti. Proprio come la vita reale. The Good Life.