Magnus von Horn tenta diverse strade per dare solidità a The Girl with the Needle. Ci prova, ottenendo risultati costantemente alterni. Riesce ad essere necessariamente cinematografico, cercando la strada tipica dell'espressionismo (e le orrorifiche maschere che aprono il film ne sono un esempio), e cercando anche l'effetto di una regia presente e pressante, che racchiude l'immagine nel formato 4:3 (sempre efficace, ma oggi forse un po' troppo abusato). In più, c'è il bianco e nero. Paradigma cinematografico per antonomasia, scrupolo artistico, ma anche vezzo autoriale se non propriamente utilizzato.
È innegabile che il film (co-produzione Danimarca, Svezia, Polonia), vagamente ispirato alla storia vera do Dagmar Overbye, serial killer danese di bambini, si poggi quasi interamente sull'estetica, e solo dopo sulla sceneggiatura, scritta da von Horn in coppia con Linea Lanebek. Scelta discutibile: nel film si cerca una continuo effetto (fin dall'incipit: una sequel di volti che si trasformano, come se fossimo davanti un'opera di body art), invece che perseguire una strada originale (e non troppo debitrice al cinema di Pawel Pawlikowksi), e magari meno impacchettata e meno formale. Di riflesso, il dramma finisce per sciogliersi, lasciando più distaccati che coinvolti.
The Girl With the Needle e lo spunto drammatico di una storia vera
The Girl With the Needle ci porta a Copenaghen, alla fine della Prima Guerra Mondiale. La protagonista è Karoline (Vic Carmen Sonne, che brava) che, ormai rassegnata a non rivedere più suo marito, partito per il fronte, si lascia sedurre (forse più per liberazione che per volontà) da un facoltoso uomo. Rimasta incinta e rimasta da sola, Karoline conosce per caso per una signora, Dagmar (Trine Dyrholm), che gestisce un'agenzia di adozione clandestina, facendosi chiamare "la creatrice di angeli". Intanto, il marito (Besir Zeciri), creduto morto, torna, indossando una maschera che cela il suo volto mostruoso e sfigurato (un plus interessante, ma probabilmente superfluo nel suo essere poi poco sfruttato). Se The Girl with the Needle è un film di ferite, mostrate e celate (su cui imperversa il tema della maternità), Karoline rifiuta la disponibilità di suo marito ad accettare il bambino appena nato, decidendo di darlo all'agenzia di Dagmar. Sotto, però, è celata una verità sconvolgente.
Se l'estetica si sovrappone al racconto
Se funziona l'affascinante struttura visiva, mischiandosi bene alla colonna sonora di Frederikke Hoffmeier, e vivendo quasi in simbiosi con la fotografia di Michał Dymek, Magnus von Horn sembra alternare il thriller al dramma sociale, sguazzando nella ridondanza e nell'autocompiacimento. Si nota quanto The Girl with the Needle sia infatti realizzato con lo scopo di sottolineare ogni scena e ogni sguardo, posandosi sulla storia come se fosse un punto d'osservazione privilegiato, quasi onnisciente.
Se il fatto di cronaca, di per sé interessante e sconcertante, avrebbe una sua logica e un suo spirito cinematografico, questo viene reso quasi secondario nell'architettura generale, puntando ad una comunicazione che finisce per restare narrativamente in superficie, preferendo appunto la tecnica (pur lodevole, e di grande suggestione) alla sostanza, e di conseguenza mascherando l'emotività da un consenso registico che parte da un punto soggettivo e ombelicale. Perché, come scritto, c'è una costante sottolineatura di quanto il linguaggio drammatico (e qui il dramma è cavalcato) sia una invariabile concetto nel panorama "festivlliero": pur ben costruito, per toni e ritmo, The Girl with the Needle, è stato presentato in Concorso a Cannes 77, e pare essere il classico film dosato e pensato per assecondare gli umori di un festival. Poco male, se c'è la qualità. Tuttavia, la qualità è poi dubbia quando si nota un tratto più caricato e calcato del solito: a forza di spingere, il foglio si strappa.
Conclusioni
Lo spunto di un fatto di cronaca vero (terribile e aberrante) avvenuto tra il 1913 e il 1920 fa da sfondo al film di Magnus von Horn, cercando più l'effetto estetico che la sostanza narrativa. Una filiera cinematografica che vive facendo vibrare (forse più del dovuto) il dramma che sovrasta il racconto, plasmando l'immagine seguendo i canoni di un'estetica probabilmente veicolata da un forte manierismo.
Perché ci piace
- Diverse suggestioni visive.
- La storia, o almeno il suo spunto di cronaca.
- L'estetica, elegante e potente.
Cosa non va
- ... forse troppo potente?
- Un manierismo generale.
- Alcuni temi restano solo accennati, quasi come fossero orpelli.