Dai tempi di Rocky Balboa, parlare di boxe al cinema significa parlare di riscatto, del sogno americano, della rinascita di esistenze spezzate o tenute ai margini. Ebbene dieci anni fa, David O. Russell, grazie a Mark Wahlberg e Christian Bale, riusciva con The Fighter a declinare tale tematica in un modo tanto sorprendente quanto originale. Contemporaneamente ci mostrava anche la durissima realtà dell'America dei sobborghi, quella proletaria, bianca, alcolizzata e dimenticata dal boom economico degli anni 90, assediata da droga e da un degrado a dir poco terrificante. A dieci anni di distanza, il film rimane un viaggio pieno di speranza e ferocia in esistenze spezzate e degradate, in cui però prevaleva fortunatamente l'epica sulla retorica.
Il vero volto della boxe
Parlare di boxe vuol dire quasi sempre parlare di miti come Rocky Marciano, Muhammad Ali o Mike Tyson. Tra alti e bassi, vittorie e sconfitte, la loro è una dimensione mitica dello sport, fatta di gloria e folle che acclamano il loro idolo. Ma la realtà è ben diversa. La boxe vuol dire successo e fama per pochissimi, vi è uno sterminato numero di combattenti destinati a non essere mai conosciuti da nessuno, ad incasellare sconfitte su sconfitte, a non avere mai un'occasione, spesso tornando dal mondo di disperazione e miseria da cui erano venuti. The Fighter, uscito dieci anni fa, parlava di uno di loro. "Irish" Micky Ward, peso welter jr di Lowell, Massachusetts, pugile a lungo perdente e senza speranza a causa di una fallimentare linea manageriale decisa dalla madre Alice (una grande Melissa Leo) e dal fratello maggiore, anch'egli ex pugile, il tossico e inaffidabile Dick Ecklund (Christian Bale). The Fighter ci mostrava la realtà di chi è costretto a fare da trampolino in modo molto più realistico e meno romanzato di un Rocky o di un Southpaw - L'ultima sfida. Incontri modificati all'ultimo, completamente sbilanciati, allenamenti rudimentali, pochi soldi, tante botte e tanti punti di sutura in faccia, e nemmeno la possibilità di poter andare in giro per strada con il fantomatico "orgoglio del guerriero" di cui tanto sovente si decanta. Le occasioni, quando capitano, non sono dovute a miracoli o colpi di fortuna come in Rocky Balboa o Creed - Nato per combattere, ma dal sacrificio, da match messi in fila l'uno dopo l'altro, sperando che il promoter o l'organizzatore giusto ti noti e decida di darti una chance. In questo, il film di David O. Russell abbracciò una dimensione che anche nei combattimenti toglieva ogni retorica e phatos ad uno sport in cui la morte è ancora oggi terribilmente presente.
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Brutti, Sporchi e Cattivi
Uno degli aspetti più interessanti di The Fighter, è come riesca a donarci un ritratto assolutamente fedele della realtà dei sobborghi, del sottoproletariato americano, di quel mondo fatto di famiglie allargate, violenza, disagio, in cui regna un degrado che abbraccia ogni aspetto dell'esistenza. Melissa Leo, nei panni della feroce ed egoista matriarca di una delle famiglie più sgangherate mai viste sul grande schermo, fu semplicemente magnifica. La sua Alice è un concentrato di avidità, di prepotenza e ferocia possessiva, ed il fatto che neppure se ne renda conto, la rende anche più pericolosa. A lei viene anteposta una Amy Adams che porta con sé un erotismo potente ma reso sicuramente meno aulico o pretenzioso da una dimensione esistenziale altrettanto misera, rabbiosa e incerta. Lowell sembra una sorta di gigantesco parcheggio della vita. Se ci stai vuol dire che non hai ancora combinato nulla, ma potrebbe andarti anche peggio, potresti essere come il fratello di Mickey, potresti essere come Dick. Bale aveva già stupito e avrebbe stupito anche dopo per la sua incredibile capacità metamorfica, ma di certo nessuno potrà negare che l'Oscar ricevuto per questo film non sia stato uno dei più meritati degli ultimi dieci anni. Un perdente, un sopravvissuto a se stesso così convincente, si era visto davvero raramente sul grande schermo. Lui, con il suo volto magro e angoscioso, la parlantina logorroica e la disperazione della sua vita, si pone in perfetta contrapposizione al Paulie di Rocky, e invece del fedele e caotico scudiero, ecco arrivare una scheggia impazzita e distruttiva.
Vincere non è importante, è l'unica cosa che conta
The Fighter al contrario di Rocky Balboa, non pone come obbiettivo il successo o l'abbracciare il sogno americano. L'importante non è dimostrare che non si è bulli da periferia perché da quella periferia tanto né Micky né la sua amata Charlene potranno mai scappare. Quel posto è dentro di loro e quando sono fuori da quei vicoli, da quei pub, si sentono inadatti, indifesi, inferiori agli "altri" ed "altre", quelli che hanno fatto il college e hanno una vita diversa. Ciò che conta è farcela, è sopravvivere, è riuscire anche solo volgarmente a guadagnare abbastanza da non dover spacciare per strada, uccidersi di fatica costruendo tetti o annusando il puzzo dei pub da dietro un bancone per tutta la vita. Ed al contrario dell'epica saga di Rocky, la vittoria non è qualcosa di secondario, un plus da aggiungere ad aver dato il massimo e dimostrato il proprio valore. Nossignore, questa è l'America vera, dalla base della catena alimentare di una società basata sull'individualismo ce ne si esce solo vincendo, ed è la sola cosa che conta, la sola cosa che ti garantisce di lasciarti alle spalle debiti, cibo scadente e auto scassate. Su quel ring, Micky non vinse perché era uno stupendo tecnico, un principe della boxe come quel Sugar Ray Leonard che suo fratello era riuscito fortunosamente ad atterrare ma da cui era stato poi massacrato. Micky Ward, che sarebbe diventato leggenda per la trilogia con l'italo-canadese "Thunder" Arturo Gatti (che peccato non aver visto nulla di tutto ciò in questo film) era per l'appunto un lottatore, un fighter, che sapeva fare solo una cosa meglio degli altri: incassare e andare avanti.
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Il risveglio di un paese in ginocchio
Sono passati dieci anni da quel film, uscito quando l'America era ancora alle prese con una crisi economica terrificante, che aveva ridotto intere famiglie in condizioni anche molto peggiori di quelle in cui si trovavano Micky e gli altri membri della sua tribù incasinata e aggressiva. The Fighter ci portò nella terribile Odissea di Dick Ecklund, nel suo tirarsi fuori dalla tossicodipendenza, accettare che il sogno americano non esisteva, che le promesse non erano state mantenute. L'illusione non era stata meno terribile per lui di quanto non lo fosse stata per il resto dell'America accorsa in sala per vedere questo film. Come lui si erano drogati per anni con cose che non esistevano, avevano creduto di farla franca con trucchi, imbrogli, illusioni autoindotte. La prigione (che qui pare quasi più un tempio in cui riprendersi, un'oasi dove i detenuti si aiutano lontani dal mondo reale) diventò metafora del risveglio di un paese impoverito, che fu costretto a guardarsi allo specchio e a ripartire lasciandosi dietro i sogni yuppie e ingannevoli. Di lì a qualche anno, come Dick e Micky si sarebbero ripresi, avrebbero lottato sul loro ring e dimostrato quanto valevano. Per questo, anche per questo, The Fighter è stato non solo un grande film ma un film importante: perché ci parlò del risveglio di una nazione, a cui non serviva un idolo come quello di Cinderella man - Una ragione per lottare per ripartire, perché l'eroe che ci serve è quel tizio che vediamo dentro uno specchio la mattina.