The Elephant Man: David Lynch e l’orrore nello sguardo

Nel 1980 David Lynch firmava The Elephant Man, capolavoro basato sulla vera storia di Joseph Merrick: un'emozionante rappresentazione del nostro rapporto con la diversità.

"Oh, signor Merrick... lei non è affatto un uomo elefante." "No?" "No: lei è Romeo!"

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The Elephant Man: un primo piano di Anthony Hopkins

Sono trascorsi tredici minuti dall'inizio del film quando, ai nostri occhi, viene svelato per la prima volta il personaggio del titolo. Il volto deforme di John Merrick emerge dalla penombra solo per pochi istanti; il controcampo della scena è lo stupore impresso sul viso del dottor Frederick Treves, a cui è affidata la focalizzazione di tutta la prima parte di The Elephant Man (di nuovo in sala dal 21 settembre in versione restaurata per il quarantesimo anniversario). Perché Treves siamo noi: la curiosità, lo sgomento, la pietà del chirurgo si fanno specchio delle nostre reazioni rispetto a quell'immagine 'mostruosa' (monstrum, in latino, è il prodigio, il fenomeno contro natura), che David Lynch tiene nascosta quanto più a lungo possibile.

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The Elephant Man: John Merrick incappucciato

L'uomo elefante è il nome che campeggia nel "gabinetto di curiosità" gestito dal bieco Bytes; è la figura incappucciata e claudicante che viene condotta al London Hospital; è la silhouette dietro un telo mentre il dottor Treves illustra il suo caso davanti a una platea di colleghi. Ma noi spettatori rivedremo John Merrick solo molto più tardi, e attraverso la prospettiva di Nora, una giovanissima infermiera che urla terrorizzata dopo aver scoperto quella creatura in cui non è facile riconoscere un altro essere umano. Nel grido di Nora sono racchiuse anche le nostre paure, i nostri istinti di repulsione di fronte alla diversità; eppure si tratta al contempo di un grido catartico, del segno di una cesura. Da quel momento in poi, Merrick cesserà di essere un uomo elefante e ci si rivelerà per ciò che è veramente: un uomo.

L'opera seconda di David Lynch

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The Elephant Man: David Lynch e John Hurt sul set

In questa prima mezz'ora, nella perizia con cui David Lynch impedisce, offusca o ritarda l'esplicita 'manifestazione' di John Merrick, e poi nel progressivo spostamento della focalizzazione da Treves a Merrick è racchiusa una componente importante del cinema del regista del Montana: lo sguardo, strumento di voyeurismo e veicolo del contatto con l'alterità, sarà uno degli elementi-chiave della sua filmografia, di cui The Elephant Man costituisce appena il secondo tassello, per quanto riguarda i lungometraggi. Prima di allora, infatti, Lynch aveva diretto soltanto Eraserhead (1977), opera a bassissimo costo in cui i toni da commedia surreale si intrecciavano con il filone del body horror: un esordio stupefacente, destinato a diventare un "cult di mezzanotte" e ad attirare l'attenzione del maestro della parodia hollywoodiana, Mel Brooks.

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The Elephant Man: John Hurt in una scena
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The Elephant Man: John Merrick nella sua camera d'ospedale

È appunto l'autore di Frankenstein Junior ad ingaggiare David Lynch per dirigere The Elephant Man, basato sulla vera storia di Joseph Merrick (il cui nome sarà cambiato in John) e sul memoriale autobiografico di Frederick Treves. Quando The Elephant Man fa il suo debutto a New York, il 3 ottobre 1980, la storia di Merrick è tutt'altro che sconosciuta al pubblico: tre anni prima, infatti, era stato portato a teatro un dramma omonimo, scritto da Bernard Pomerance e approdato con successo a Broadway nel 1979. La pellicola di Lynch, che firma anche la sceneggiatura con Christopher De Vore ed Eric Bergren, viene ricompensata con tre BAFTA Award, tra cui miglior film e miglior attore (John Hurt), riceve otto nomination agli Oscar e consacra il talento di uno dei più originali cineasti della nostra epoca.

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L'Inghilterra vittoriana fra realtà, sogno e incubo

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The Elephant Man: John Hurt in una scena

Perché per quanto The Elephant Man possa essere considerato un lavoro su commissione (lo sarà pure, quattro anni dopo, lo sfortunato Dune), in esso già si possono rintracciare temi e stilemi del cinema di David Lynch: a partire dal rigetto di un facile sentimentalismo, dalla potenza espressiva nel raccontare il nostro rapporto con la deformità e la stranezza, dall'irruzione del sogno nella dimensione del reale, che si consuma fin dallo straordinario, angoscioso incipit per ricongiungersi poi all'incanto onirico dell'epilogo. E l'avvolgente bianco e nero della fotografia di Freddie Francis non fa che accentuare l'intima compenetrazione fra questi due piani, oltre a restituirci un ritratto memorabile della Londra vittoriana di fine Ottocento: un paesaggio urbano dominato dalle ciminiere delle fabbriche, le cui strade sono invase dai fumi delle industrie mentre rumori metallici vanno a comporre un opprimente tappeto sonoro.

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The Elephant Man: un'immagine del film
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The Elephant Man: Anthony Hopkins, John Hurt e Freddie Jones

"Queste macchine sono abominevoli: non si discute con loro", è l'amaro commento di Frederick Treves, interpretato da Anthony Hopkins, mentre è chino sul ventre di un operaio ferito in un incidente sul lavoro. L'Inghilterra di The Elephant Man non è soltanto lo scenario dickensiano della parabola di John Merrick, ruolo impersonato da un magnifico John Hurt, ma una metropoli nel pieno di una trasformazione radicale: il simbolo di una modernità incipiente su cui si profila però la minaccia di quelle "macchine abominevoli", mentre i bassifondi brulicano di una piccola folla grottesca che, nottetempo, irrompe nell'esistenza di Merrick per torturarlo e ricondurlo alla propria essenza di freak, di ignobile scherzo della natura utile solo come oggetto di scherno.

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L'uomo dietro l'elefante

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The Elephant Man: John Hurt e Anthony Hopkins

È l'aspetto più autenticamente doloroso di questo primo capolavoro, in ordine di tempo, nella produzione di David Lynch: l'orrore che John Merrick, con la purezza di un ragazzo poco più che ventenne senza quasi alcuna esperienza del mondo, legge negli occhi di chi lo sta guardando, credendo che si tratti di un riflesso di sé stesso. Perfino il dottor Treves, il suo benefattore, nell'esibirlo alla comunità scientifica non esita a definirlo "una terribile, degradata versione di un essere umano". Sarà soltanto in seguito che Treves riuscirà ad accorgersi dell'umanità dietro "l'elefante", e contestualmente dovrà rimettere in discussione la propria, di umanità: "Sono un uomo buono o un uomo cattivo?", è la domanda che si pone Treves, paragonando il suo comportamento a quello abietto di Bytes.

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The Elephant Man: John Hurt e Anne Bancroft
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The Elephant Man: Anne Bancroft e John Hurt

Implicitamente, un interrogativo simile viene rivolto allo spettatore. L'intensità di un film quale The Elephant Man risiede nella forza con cui incrina le nostre certezze di persone 'giuste', facendo affiorare la paura insita nello sguardo di ciascuno di noi salvo poi demolirla mediante i suoi personaggi: l'empatia di Frederick Treves e di sua moglie Ann; la generosità del direttore dell'ospedale, Francis Carr Gomm, e le solerti premure della capo-infermiera, madre Shead (due veterani del teatro e del cinema britannici, John Gielgud e Wendy Hiller); e l'affetto cristallino di una star del palcoscenico, Madge Kendal, con il sorriso radioso di Anne Bancroft, che schiuderà a Merrick la meraviglia del mondo del teatro, reciterà insieme a lui i versi di Romeo e Giulietta e pronuncerà la battuta più bella di tutto il film: "Oh, signor Merrick... lei non è affatto un uomo elefante. No: lei è Romeo!".

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La cattedrale di John Merrick

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The Elephant Man: John Hurt nel ruolo di John Merrick

In uno dei suoi racconti più celebri, Cattedrale, Raymond Carver descrive la sfida 'impossibile' di un uomo intenzionato a far comprendere a un cieco, ospite in casa sua, cosa sia una cattedrale medievale; così il cieco, Robert, afferra delicatamente le mani del protagonista e le accompagna mentre quest'ultimo traccia il disegno di una cattedrale su un cartoncino, per poi chiudere gli occhi e pensare: "Ero a casa mia". E in The Elephant Man, anche John Merrick realizza una cattedrale: seduto alla finestra della sua camera, osserva le guglie in lontananza e, da lì in poi, lascia che sia la propria fantasia a fare il resto. "Io devo... devo affidarmi alla mia immaginazione per quello che da qui non vedo".

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The Elephant Man: un'immagine di John Hurt

La realtà può porre dei limiti, ma esiste uno sguardo interiore in grado di oltrepassare ogni barriera. È lo sguardo che permetterà a Frederick Treves di vedere davvero John Merrick; è lo sguardo carico di dolcezza che la signora Kendal gli rivolge fin dal primo momento; ed è lo sguardo con cui Merrick, finalmente libero dai bestiali elefanti che popolavano i suoi incubi, completerà la propria cattedrale, per poi poggiare la testa sul cuscino ed esaudire un ultimo, commovente desiderio di 'normalità'.

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