The Beast, la recensione: ama il ricordo che non puoi capire

La recensione di The Beast, storia distopica di due anime destinate a stare insieme, per poi dividersi, nell'arco di secoli differenti ed epoche diverse. Il film, diretto da Bertrand Bonello, è stato presentato in concorso alla 80.esima edizione della Mostra del cinema di Venezia.

The Beast, la recensione: ama il ricordo che non puoi capire

"C'è una sola bambola, abbastanza neutrale, così da piacere a tutti", e in effetti Gabrielle è un modello unico di una donna che supera i secoli, abbatte le barriere spazio-temporali per invadere lo schermo di parole, dubbi, ricordi innestati, o memorie distorte.

Come sottolineeremo in questa recensione di The Beast, il film diretto da Bertrand Bonello e presentato in concorso alla 80.esima Mostra del cinema di Venezia, è un lungo rincorrersi di due anime perse nel tempo, pronte a ricongiungersi prima di un possibile, definitivo, addio. Nessun romanticismo nel film di Bonello, ma solo un forte straniamento narrativo, figlio di un recupero di un montaggio predominante fatto di scene che si rincorrono, reiterano, ingannano lo spettatore, lasciandolo vagare in una sala degli specchi in cui tutto pare la copia di tutto, ma la realtà scivola tra le mani, volando via come un piccione nel cielo.

The Beast: la trama

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The Beast: una foto dal set

In un futuro prossimo in cui regna suprema l'intelligenza artificiale, le emozioni umane sono ormai considerate una minaccia. Per liberarsene, Gabrielle deve purificare il suo DNA: si immerge quindi in vite precedenti, dove rincontra Louis, suo grande amore. Ma la donna è vinta dalla paura, un presagio che la catastrofe è vicina.

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Esistenze in divenire per passati da recuperare

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The Beast: George MacKay in una foto sul set

Uno, nessuno e centomila esistenze; non più maschere pirandelliane, o identità da ricostruire e inventare ex-novo come Mattia Pascal, quelle di The Beast sono esistenze passate e raccolte in un archivio apparentemente impossibile da sbloccare; un multiverso di esistenze uniche, che si prendono e perdono sviluppandosi nello scorrere di secoli. Un'opera che risente delle influenze di Black Mirror, ripiegando ogni singolo fattore fantascientifico sotto l'egida di un'essenza umana a tratti sfuggente e solo superficialmente confusionaria. Già, perché quello sceneggiato da Bertrand Bonello, Guillaume Bréaud e Benjamin Charbit è un cammino tortuoso, un percorso sinistro e impervio, durante il quale basta una piccola distrazione che tutto si perde, come ricordi nel buio del dimenticatoio.

Chiamami con il tuo ricordo e io ti chiamerò con il mio

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The Beast: Léa Seydoux e George MacKay in una scena

È una struttura che vive della forza dei propri protagonisti, The Beast. Viaggiatori ignari del tempo, i personaggi interpretati da Léa Seydoux e George MacKay sono le colonne portanti di un tempio mnemonico dall'ibrida essenza. Nella Parigi di oggi, che si fa quella di ieri (XX secolo) e di domani (2044) i due attori sembrano non perdere la bussola, rimanendo fermi su un percorso tracciato da intelligenza artificiale e fabbriche di bambole, piccioni e ricordi, sogno e realtà. Tutto è niente e niente è reale in The Beast. Ciononostante, lo spettatore è istintivamente portato ad affidarsi pienamente a queste due guide dantesche, per cercare nello spazio dei loro sguardi profondi, o urla disperate, indizi di un racconto che continua a sfuggirgli di mano. Colti da inquadrature sufficientemente ampie per fare di Gabrielle e Louis parti integranti dello spazio-tempo che entrambi attraversano, la cinepresa di Bonello li avvolge e li ingloba nella cornice effimera di un ricordo che pare eterno tanto quanto un'intera esistenza.

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Intuire per comprendere

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The Beast: George MacKay, Léa Seydoux in una scena

E quelle vissute da Gabrielle e Louis sono molteplici, complicate, esistenze; sono cuori che battono all'unisono nello spazio di un sogno (perché "l'amore può essere fatto solo nei sogni") e che si allontanano all'apertura di occhi desti e svegli. I due attori cuciono su di loro psicologie complesse, e menti dalle memorie contorte, restituendo ai loro personaggi un'umanità convincente e sentimenti quasi tangibili nel loro essere distanti e distopici. Vi sono attimi in cui pare difficile, se non estenuante, comprendere la spinta razionale dietro ogni azione compiuta, o comportamento espresso, poi basta uno sguardo in camera della Seydoux, o un primo piano su MacKay che ogni dubbio svanisce, lasciando spazio a sensazioni e partecipazioni affettive che vanno al di là di ogni razionale comprensione. E così, il più grande pregio di The Beast diventa al contempo il suo più grande difetto: è un'opera che deve essere sentita, interiorizzata, mai compresa. È un film che deve essere guardato chiudendo gli occhi, e aprendo lo scrigno dell'istinto. Solo così si può cogliere la potenza della bestia, e quella sua forza bruta che tutto prende e distrugge, ricordi compresi.

Due destini nell'onda del tempo

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The Beast: Léa Seydoux in una scena

Sono due anime progettate per stare insieme al di là del tempo e dello spazio, Gabrielle e Louis. Ma ogni volta che i loro corpi si avvicinano, e le bocche si incontrano, l'onda del destino si abbatte su di loro, dividendoli ancora, al di là di altre rive, altre epoche, altre storie. Una rincorsa continua, di sensazioni per un uomo che finisce là dove la donna inizia, spogliata da Bonello da ogni forma di narrazione classica per rovesciare le carte in tavola e destrutturare le forme tradizionali del racconto a favore di un montaggio sincopato e frammentato, in cui nulla - nemmeno il tempo - è certo. Tutto si avvolge pertanto di un substrato di fantascienza appena accennata che rende a tratti inaccessibile e sfuggente un pensiero aleatorio, o un'idea che non si concretizza in fatti pratici e tangibili. Ogni sequenza spazio-temporale è sviluppata con attenzione e cognizione di causa, ritrovando al suo interno un inizio, uno svolgimento e un epilogo.

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The Beast: George MacKay sul set

Ne consegue un'operazione pluristratificata che vista da lontano può aiutare ad apprezzare il senso finale dell'intera opera, ma che da vicino denuncia la natura straniante e disorientante di ogni singola sequenza. In questa dilatazione di racconti alla seconda, una concentrazione maggiore sullo scarto tra l'epoca contemporanea e quella futura (la stessa che darà il là alla storia) avrebbe sicuramente giovato al coinvolgimento totale di uno spettatore in balia di sentimenti ed emozioni contrastanti. Ciononostante, la macro-sequenza di una Parigi di inizio Novecento è lì a dominare il primo atto di un film che rimane appiccicato come un sogno non compreso; si annida nella mente generando quesiti e sviluppando teorie, annebbiando il senno e aprendo l'inconscio. Perché solo nei sogni si potrà fare l'amore, e forse per comprendere The Beast bisogna altrettanto vagare in quella nube onirica di realtà - e strade - perdute.

Conclusioni

Concludiamo questa recensione di The Beast sottolineando come il film di Bonello per quanto sfuggente e a tratti inaccessibile, riesca a inserirsi nei substrati più profondi del pensiero umano, generando quesiti, suggerendo ipotesi. Le sue anime in perenne ricerca l'una dell'altra sono parte integrante dello spazio-tempo che li ingloba, generando un percorso interiore psicologico e mnemonico all'interno di un racconto pluristratificato.

Movieplayer.it
3.5/5
Voto medio
3.2/5

Perché ci piace

  • Le performance dei due protagonisti, capaci di sostenere il peso di un'opera poco accessibile.
  • Il montaggio.
  • La reiterazione di un semplice gesto, o di un preciso momento che si fa collante di epoche passate.
  • La complessità del racconto che porta un po' di freschezza al genere.

Cosa non va

  • La macrosequenza di Parigi.
  • La voglia di spingere sul lato mentale, lasciando da parte in certi punti quella narrativa.