The Beach Boys, la recensione: se un documentario racconta il genio di un band rivoluzionaria

Il documentario The Beach Boys ci racconta come tutto, nella storia della band, fosse una questione di armonia. E una questione di famiglia. In streaming su Disney+ dal 24 maggio .

Un'immagine di The Beach Boys

"Pensai: è il miglior album della storia. E ora noi che faremo? Era musicalmente così innovativo, era fantastico". È Paul McCartney a pronunciare queste parole. E sta parlando di Pet Sounds, il capolavoro dei Beach Boys. È un momento chiave di The Beach Boys, il documentario sulla storica band americana in streaming su Disney+ dal 24 maggio. La storia è nota: motivati da Pet Sounds i Beatles furono spinti a dare il massimo, a fare il loro concept album: Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. È opinione di tutti che senza Pet Sounds non ci sarebbe stato Sgt. Peppers. E, a sua volta, non ci sarebbe stato Pet Sounds senza Rubber Soul, il precedente album dei Fab Four che influenzò a tal punto i Beach Boys da spingerli a superarsi. La competizione, che secondo alcuni si può considerare quasi una collaborazione, portò le due band ad alzare l'asticella.

The Beach Boys Getty Images 2
I Beach Boys, una foto del gruppo

La competizione faceva crescere la musica, la cultura, e faceva progredire il rock oltre i suoi limiti. Per questo è interessante guardare The Beach Boys: un documentario classico, senza colpi ad effetto (o quasi), ma una storia di armonia, musicale e familiare, perduta e ritrovata. Una storia che ci ricorda non solo quanto fosse grande la band dei fratelli Wilson, ma quanto fossero grandi quei tempi, in cui i nomi del rock si sfidavano, pronti a superare i propri limiti.

Quel legame con la musica surf

The Beach Boys Getty Images 3
Brian, Dennis e Carl Wilson, tre fratelli, e Mike Love

Tutto, quando parliamo dei Beach Boys, è questione di armonia. Lo dicono loro stessi, fin dalle prime battute di The Beach Boys. La loro forza erano le armonie vocali, uniche e vicine alla perfezione. Ma anche il fatto che fossero una famiglia: Brian, Dennis e Carl Wilson, tre fratelli, e Mike Love, il loro cugino. A cui si unirono ben presto Al Jardine e in seguito altri musicisti. Iniziarono come un quartetto vocale tipico degli anni Cinquanta e Sessanta, in cui sublimavano le loro individualità per creare il suono del gruppo. La loro fortuna fu il fatto di legarsi alla musica surf: Dick Dale And The Del-Tones (quelli di Misirlou, la canzone che apre Pulp Fiction) e The Ventures. Erano tutti gruppi strumentali: i Beach Boys provarono a fare musica legata al surf con le voci. E che voci. Ah, a fare surf i Beach Boys ci hanno provato, smettendo subito...

I Beach Boys evocavano il sogno californiano

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Surfin' USA!

Ma il legame con il surf e l'atmosfera delle prime canzoni è riuscita a fare altro. I Beach Boys, sin dai primi accordi delle loro canzoni, evocavano immediatamente un mondo. Erano un vero simbolo del sogno californiano: sole, mare, surf, macchine e bikini. La loro musica faceva venire voglia di partire per la California. E questa vibrazione la sentivano ancora di più i ragazzi che abitavano all'interno degli Stati Uniti - come racconta Ryan Tedder, leader degli One Republic - e che quel mondo lo conoscevano solo da lontano, e finivano per idealizzarlo. Essere la band della musica surf, però, fu allo stesso tempo la loro fortuna e un'etichetta dalla quale i Beach Boys non riuscirono mai a staccarsi definitivamente a livello di opinione pubblica, nonostante la loro musica fosse cambiata.

I Beach Boys diventarono due gruppi

Sarebbero potuti rimanere sempre quelli di Surfin' USA e California Girls. E invece i Beach Boys andarono oltre, perché avevano Brian Wilson, genio musicale che avrebbe condizionato la band in ogni senso. Wilson ascoltava quei pezzi stupendi che passavano in radio negli anni Sessanta: quelli prodotti da Phil Spector, autore del cosiddetto Wall Of Sound, l'uomo dietro pezzi come Be My Baby delle Ronettes. Ascoltava i Beatles, che lo spinsero a dare sempre di più. Ma Brian Wilson era un tipo casalingo, riservato, che soffriva moltissimo la vita in tour.

E così, dopo la tournee del 1964, decise di lasciare i concerti. Più o meno nello stesso periodo anche i Beatles lasciavano l'attività live, per dedicarsi ai dischi in studio. In quel caso, però, erano tutti e quattro. I Beach Boys invece diventarono due gruppi: quello delle registrazioni e quello dei concerti. E se i quattro Beatles contribuivano alla creatività delle canzoni, la composizione dei pezzi dei Beach Boys era affare solo di Brian Wilson. Geniale, da un lato, ma pure ossessivo, perfezionista e perduto tra allucinogeni e paranoie.

Pet Sounds è il Sgt. Pepper dei Beach Boys, ma...

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In studio di registrazione

Brian Wilson non aveva studiato. E questo era un bene, perché non aveva limiti, spingeva i suoi Beach Boys sempre oltre. L'apice raggiunto dalla band è Pet Sounds, un disco in cui Wilson scriveva seguendo i propri sentimenti e registrava un capolavoro come Wouldn't It Be Nice qualcosa come trenta volte. Tramandato ai posteri e arrivato a noi come uno dei più grandi dischi di tutti i tempi, Pet Sounds - cosa che non tutti sanno e questo documentario spiega bene - però non ebbe affatto il successo sperato. I primi a non capirlo furono proprio quelli della casa discografica, la Capitol Records, che volevano ancore le canzoni sul surf. Così, cosa assurda, fecero uscire un greatest hits e promossero quello invece di Pet Sounds. I Beatles si erano evoluti gradualmente, crescendo man mano. Il cambio dei Beach Boys era stato drastico. La storia della musica è piena di cambiamenti mal visti dal pubblico. E in questo senso il documentario è universale. È come se raccontasse la storia di tutte le band.

Smile, il grande album mai uscito

I Beach Boys: Brian, Dennis, Carl Wilson e il cugino Mike Love
I Beach Boys: Brian, Dennis, Carl Wilson e il cugino Mike Love

Brian Wilson e i Beach Boys ebbero un colpo di coda. Volevano fare una canzone che la gente potesse apprezzare, e che al contempo continuasse la crescita del gruppo. Good Vibrations e il successivo album Smile, mai uscito, racchiudono tutto il senso di Brian Wilson: una canzone perfetta, costruita ossessivamente in tre mesi di lavoro e in tre studi diversi, che arriva al numero 1. E l'album che avrebbe dovuto capitalizzarne il successo, qualcosa di grande, Smile, che diventa più un disco di Wilson che dei Beach Boys, e finisce per essere accantonato. Era il 1967: sarebbe uscito solo nel 2011, con il titolo The Smile Sessions. Al suo posto uscì un album innocuo, Smiley Smile, con canzoni assurde. Brian Wilson aveva portato i Beach Boys oltre i loro limiti. Ma forse quando cambi così tanto il pubblico non ti segue più.

Alla fine degli anni Sessanta il sogno era cambiato

Una foto di Brian Wilson
Una foto di Brian Wilson

La grande onda dei Beach Boys, di fatto si ferma lì, a quel magnifico singolo, Good Vibrations. Alla fine degli anni Sessanta il sogno era cambiato e loro non lo rappresentavano più. La musica era in continuo fermento, era legata ai diritti civili e alle libertà: la musica dei Beach Boys era lontana da quei cambiamenti culturali. Vederli cantare ancora California Girls nel 1969, vestiti da marinai, con quello che stava accadendo in tutto il mondo, suonava davvero fuori tempo. La band provò a inserire nuovi membri, a registrare fuori dagli Stati Uniti. Fino a che, nel 1974, la Capitol pubblicò un greatest hits, Endless Summer: ebbe un successo incredibile e portò la band a suonare negli stadi. C'era un pubblico nuovo che non li aveva mai sentiti e stava riscoprendo quelle atmosfere. In fondo, è andata così anche al cinema: proprio un anno prima, nel 1973, George Lucas, con American Graffiti, inaugurava il filone "nostalgico" che riportava l'America agli anni Cinquanta e Sessanta. Anche se la fine della storia, amara, è la causa legale che Mike Love dispone a Brian Wilson.

Mantenere queste belle vibrazioni d'amore

I Beach Boys in movimento: Brian, Dennis, Carl Wilson e il cugino Mike Love
I Beach Boys in movimento: Brian, Dennis, Carl Wilson e il cugino Mike Love

The Beach Boys racconta tutto questo con una narrazione pacata, classica, senza scossoni, senza colpi ad effetto, perché la musica e la storia sono già abbastanza forti. Alterna le interviste ai Beach Boys ancora in vita a interviste di repertorio, a contributi di artisti di oggi che sono stati toccati dalla grandezza dei fratelli Wilson: Ryan Tedder, Don Was, Janelle Monáe e Lindsey Buckingham. The Beach Boys, diretto da Frank Marshall e Thom Zimny (noto per i suoi lavori su Bruce Springsteen), con la sceneggiatura di Mark Monroe, essenzialmente è una storia di una band senza tempo, artefice di una musica evocativa e cinematica (è la prova che sentiamo quelle canzoni in centinaia di film) che ancora oggi suona freschissima.

Una vicenda universale, quella di tutte le band, che si formano e si sciolgono, ma è anche una storia unica, per quella personalità così forte che ne è al centro. Il colpo ad effetto, in realtà, arriva alla fine. Brian Wilson, Mike Love e gli altri Beach Boys ancora vivi si riuniscono proprio sulla spiaggia di Paradise Cove, in California, dove fu scattata la foro del loro primo album, Surfin' Safari. La loro reunion è commovente. Poco prima, nel montaggio, avevamo ascoltato questo parole. "Gotta keep those lovin' good vibrations a-happenin'".

Conclusioni

Come vi abbiamo raccontato nella recensione di The Beach Boys è un documentario classico, senza colpi ad effetto (o quasi), ma una storia di armonia, musicale e familiare, perduta e ritrovata. Una storia che ci ricorda non solo quanto fosse grande la band dei fratelli Wilson, ma quanto fossero grandi quei tempi, in cui i grandi del rock si sfidavano costringendosi ogni volta a superare i propri limiti.

Movieplayer.it
3.5/5
Voto medio
3.0/5

Perché ci piace

  • La storia dei Beach Boys e di Brian Wilson, universale ed unica.
  • Il contesto in cui si muove la band, che si mette in competizione con i migliori, cioè i Beatles.
  • Alcune cose che non tutti sapevano, come il fatto che Pet Sounds non ebbe il successo che credevamo.

Cosa non va

  • Il documentario ha una forma classica e un ritmo compassato.