Una ragazza in calzoncini colorati e dai capelli biondi (Suki Waterhouse) viene tatuata, spinta oltre un recinto e abbandonata al suo destino. Entrata in una zona chiamata "The Bad Batch", ai confini con il Texas, non si fa in tempo ad ammirare le sue lunghe e toniche gambe che un gruppo di cannibali le strappa il braccio e la gamba sinistri. Nonostante sembri spacciata Arlen, questo il suo nome, trova la forza di liberarsi e di scappare dai suoi aguzzini, strisciando per il deserto in sella a uno skateboard. Disidratata e in fin di vita, la donna viene recuperata da un vagabondo (Jim Carrey) che la porta a Comfort**, comunità dove le persone alla carne umana preferiscono gli spaghetti e gli allucinogeni. Grazie a una protesi Arlen può di nuovo camminare, ma il suo percorso si incrocia con quello di un imponente cannibale (Jason Momoa) alla ricerca di sua figlia.
Un western horror ipnotico che parte magnificamente ma si perde per strada
C'era grande attesa tra i cinefili per l'opera seconda di Ana Lily Amirpour, che con A Girl Walks Home Alone at Night, film in bianco e nero su una vampira iraniana che vaga di notte per le vie dell'immaginaria Bad City, si era fatta notare per la sua capacità di creare atmosfere ipnotiche, unendo l'amore per il cinema a un notevole gusto per le immagini e per la scelta della musica. The Bad Batch parte in modo folgorante: il caldo torrido del deserto del Texas, i calzoncini colorati della protagonista, la scelta brillante di mutilarla subito spiazzando completamente lo spettatore, l'unione perfetta di immagini cruente e una colonna sonora efficace, che gioca di contrasto alternando con un effetto ironico e grottesco All that She Wants degli Ace of Base al taglio degli arti di Arlen. Purtroppo però la pellicola, girata in formato anamorfico, si perde presto tra i granelli di sabbia del suo paesaggio, alternando una serie di personaggi che hanno un alto valore simbolico ma non sono sfruttati al meglio e dando alla storia un senso di incompiutezza che finisce per stancare.
Sulla scia di Furiosa
Se Jim Carrey, pur avendo a disposizione pochissime scene, risulta efficace nel ruolo del vagabondo che ha mantenuto la sua umanità, lo stesso non si può dire di Giovanni Ribisi e Keanu Reeves, cui sono rispettivamente affidati i ruoli di un folle e di un santone ambiguo a capo della comunità di Comfort (una figura, quest'ultima, che lascia intuire trame e storie interessanti ma che viene usata male, come traghettatrice verso un finale forzato che sciupa quanto di buono fatto nella prima parte del film). Il più sfortunato in termini di presenza sullo schermo è invece Diego Luna, che interpreta il deejay di Comfort limitandosi a ballare a ritmo di musica senza dire nemmeno una battuta.
Perfettamente in parte è invece Momoa nel ruolo del gigantesco cannibale inizialmente spietato ma che poi, gradualmente, mostra il suo lato più umano di padre desideroso di ritrovare la figlia, destreggiandosi anche in qualità di ritrattista. È lui a rubare più volte la scena alla protagonista Suki Waterhouse, modella prestata al cinema, che ha una notevole presenza scenica ma poco carisma e risulta sempre poco credibile nei panni della combattente che fa di tutto pur di sfuggire ai cannibali. Per lei la situazione peggiora ulteriormente quando dopo diversi minuti pronuncia le prime battute, finendo per diventare una figurina sbiadita e facendo in questo modo rimpiangere non poco la splendida Furiosa di Charlize Theron in Mad Max: Fury Road.
Da Sergio Leone a Mad Max, la vera cannibale è la regista
I western di Sergio Leone, il futuro distopico di Mad Max, i cannibali di Cannibal Holocaust, le atmosfere oniriche di El Topo e La montagna sacra di Alejandro Jodorowsky. E, perché no, anche un episodio de I Simpson in cui Homer, grazie a un piccantissimo peperoncino habanero, vede in mezzo al deserto il suo animale totem. The Bad Batch è colmo di citazioni e mostra la passione quasi bulimica della regista per i film di genere, che mescola creando una sua dimensione straniante e soprattutto all'inizio affascinante. Purtroppo però, nonostante la bellezza delle immagini (interessante la scena allo specchio con il ritaglio di giornale o quella dei due protagonisti sotto al lenzuolo bianco per proteggersi dalla tempesta di sabbia) e il gusto musicale, Ana Lily Armipour perde l'occasione di creare una grande metafora distopica, finendo per compiacere se stessa e la sua ambizione piuttosto che raccontare l'America e il mondo di oggi.
Movieplayer.it
3.0/5