I primi episodi ci avevano incuriosito e proseguendo ne abbiamo avuto la conferma: ripescando il genere western - nello specifico spaghetti western - che sta tornando alla ribalta in tv, come spiegheremo nella recensione di That Dirty Black Bag, la serie arrivata in streaming su Paramount+ è una sorpresa perché lo modernizza e lo condisce di tematiche inedite. La serie ha fatto parlare di sé perché si tratta di una co-produzione internazionale e italiana, di Bron e Palomar, scritta dagli italiani Mauro Aragoni, Silvia Ebreul, Marcello Izzo e Fabio Paladini e diretta dal sardo Mauro Aragoni e dall'irlandese Brian O'Malley. L'incontro di culture ha fatto bene alla serie, combinando dramma e ironia e omaggiando i grandi classici del genere.
Spaghetti western revisited
That Dirty Black Bag pesca quindi nella tradizione tutta italiana iniziata con Sergio Leone degli spaghetti western per provare ad attualizzarla a livello di messa in scena e di tematiche e a ibridarla con l'estero. Ne nasce così un interessante incontro e connubio con un argomento che non vi sveliamo per non rovinarvi la sorpresa, ma dicendovi che è ugualmente tornato alla ribalta come il genere western (a febbraio arriverà anche il remake seriale di Django su Sky e a marzo la miniserie The English con Emily Blunt sempre su Paramount+). Nel farlo, mette in scena la storia della cittadina di GreenVale, che è anche quella dei suoi abitanti, e di uno straniero venuto da fuori (altro elemento tipico del genere) che ne stravolgerà gli equilibri già precari. I campi sono secchi, l'aria è pesante e l'acqua è una risorsa preziosa che viene scambiata, donata, cercata a caro prezzo, quasi più dell'oro che dovrebbe trovarsi sotto le fondamenta, e da anni il terreno viene scavato in tal senso.
Otto giorni per otto episodi: da un lato abbiamo McCoy (Dominic Cooper, che ricalca la recitazione sopra le righe che aveva già sperimentato in Preacher), uno sceriffo apparentemente incorruttibile, e dall'altro Red Bill (Douglas Booth, che già aveva dato prova di sapersi trasformare in Mary Shelley e Grandi speranze) un cacciatore di taglie sporco e silenzioso. Il primo ha una parlantina che sembra non fermarsi mai, il secondo invece è taciturno e si esprime meglio attraverso gli occhi e quel suo sguardo ricolmo di dolore sotto il cappello e quel labbro contrito in mezzo alla barba. Due anime che vanno a scontrarsi ma sono entrambe tormentate dal proprio passato, proprio come tutti i personaggi di questa storia.
La chiave è nel passato
Due passati che si rivelano pian piano allo spettatore, puntata dopo puntata, per farci scoprire con cosa Mauro Aragoni e gli altri hanno voluto ibridare lo spaghetti western pur mantenendone le sue caratteristiche principali. GreenVale è una città di frontiera e per questo ospita svariati tipi di personalità. C'è Steve (Christian Cooke), un agricoltore convinto di parlare con Dio e che l'acqua stia per tornare in città, ma nessuno gli crede; c'è Eve (Niv Sultan, Tehran), a capo del bordello locale ma con segreto estetico importante; c'è Bronson (il nostro Guido Caprino, già apprezzato interprete de Il Miracolo e la trilogia di 1992 per Sky), un uomo che conosciamo nel terzo episodio e il cui destino è legato sorprendentemente a quello degli altri personaggi. Senza dimenticare il vedovo Anderson (l'ex Viking e Raised by Wolves Travis Fimmel), sottoposto di McCoy, e il sadico e sibillino Butler (Aidan Gillen, l'ex Ditocorto con cui il nuovo personaggio ha più di qualche aspetto in comune) che vive ai confini della città. Siccome la chiave per capire i protagonisti è nel passato, questa è anche una storia di vendetta e di perdono. Non ci sono eroi, solo sopravvissuti, e giusto e sbagliato non sono netti ma pieni di chiaroscuri. La religione è un altro elemento predominante e ricorrente in questa storia, non solo per il personaggio di Steve: diventa quasi un manto che adombra tutta la cittadina, rischiando di farla sparire.
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L'oggetto del desiderio western
Tutte le caratteristiche dello spaghetti western sono messe in scena, sia nei personaggi-tipo sia nelle loro dinamiche, nelle inquadrature e nei movimenti di macchina, nello sfruttamento del paesaggio italiano nelle riprese, per ricreare e omaggiare quel mood e quell'atmosfera unici. Al posto della classica valigetta dei film spionistici e d'azione e altri oggetti simili di culto, qui fin dal titolo si parla di questa Dirty Black Bag di Red Bill che diviene il centro della storia e il perno e la cartina di tornasole su cui guardare il mondo che circonda i protagonisti. Tutti si chiedono cosa contenga, pochi lo sanno, ma anche se ben presto ne viene rivelato il contenuto non si sa a chi appartenga. Sarà tutta lì la chiave della storia di Bill ma anche degli altri personaggi, per una cittadina che ha un bisogno disperato di soddisfare la sete di vendetta. Ci riuscirà?
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di That Dirty Black Bag sorpresi in positivo di come la serie sappia col passare degli episodi costruirsi una propria identità e omaggiare il genere spaghetti western ibridandolo con un elemento più moderno e tornato in auge nell’ultimo periodo. I protagonisti sono volutamente sopra le righe e le loro storie si intersecano sempre di più in modo sorprendente, per lasciare spazio alla domanda: vincerà la vendetta oppure il perdono?
Perché ci piace
- Omaggiare il genere spaghetti western rimettendolo in gioco.
- La Dirty Black Bag del titolo che diventa oggetto-personaggio.
- L’altra tematica che si palesa col passare degli episodi.
- Il cast variegato…
Cosa non va
- … a volte eccessivamente sopra le righe ma che anche in questo vuole omaggiare il genere.
- Il ritmo compassato per alcuni potrebbe risultare noioso.