Vero è, che film come Tendaberry ne abbiamo visti (e ne vedremo) a centinaia. Tuttavia, l'esordio alla regia di Haley Elizabeth Anderson, che nel titolo e nella sonorità fa il verso di un album del 1969 di Laura Nyro (New York Tendaberry, appunto), ha una sorta di aderenza moderna, risultando ben lucido nell'idea registica. Cinema indipendente duro e puro, l'altra faccia della Gen Z, oppure una disamina naif e sbriciolata sul tempo che scorre, senza apparente logica, mutando ricordi, emozioni, persone, luoghi.
Nel film della Anderson (presentato prima al Sundance e poi al Torino Film Festival), tutto parte e tutto finisce con Coney Island - e quanto ci risuona in mente il brano di Lou Reed, Coney Island Baby -, angolo analogico di una città incredibile, preservato di una memoria dai colori e dagli odori immutabili.
Tendaberry: sopravvivere a Coney Island
E proprio a Coney Island vive Dakota (Kota Johan, faccia da cinema), che ha 23 anni e, come può, prova a resistere ad una giungla urbana fitta e impervia. L'affitto da pagare, i lavori che non girano, la metropolitana sempre piena, da Brooklyn fino a Manhattan e viceversa. Un forte senso di spaesamento, il dosaggio quotidiano di una vita a mille, che non si ferma e anzi scorre veloce. In più, il ricordo ogni giorno più sfumato del suo fidanzato, volato a Kiev prima della guerra e mai più tornato. Le stagioni passano, si rimpallano tra Coney Island e Brighton Beach, mentre la Wonder Wheel gira senza sosta, testimone di un mondo - quello di Dakota - in costante mutamento.
Un esordio interessante. Oltre il caos, puntando all'armonia
Tutto qui? Sì. Tendaberry, è una breve storia lunga. Un racconto ai margini, l'idealizzazione di un luogo divenuto personificazione, l'ultima resistenza ad un'omologazione sociale e politica. Per volere della regista, nata a Huston, e tra le "25 nuove facce del cinema indipendente", il film vuole essere metafora di una certa generazione, scombussolata e impreparata davanti ai piccoli e giganteschi cambiamenti. Un raffronto certo a volte troppo istintivo, troppo lungo (due ore!) e troppo ripetitivo (e se vogliamo quasi accanito, per eventi e circostanze), ma comunque capace di far intravedere un marcato talento, sia nelle scelte narrative che in quelle visive. Magari un esordio eccessivamente debitore ad Andrea Arnold, Sean Baker e Larry Clark, ciononostante vicino ad una poetica in grado di poter "respirare, facendo provare qualcosa agli spettatori".
Se le immagini, in accordo allo script, seguono un certo flusso, ondivago rispetto alla location e alla colonna sonora jazz di James William Blades, è poi la luminosità del montaggio attrattivo a rendere potente la storia: in questo senso, Haley Elizabeth Anderson traccia un parallelo rispetto a Dakota con Nelson Sullivan, videomaker avanguardista di quello che sarà poi il futuro vlogging: le sue immagini, girate in Super 8, che immortalavano una Coney Island incontaminata, sono un ulteriore punto di vista prospettico offerto allo spettatore, amalgamate in una grazia cinematografica che punta, infine, a sfidare la cattiveria di un mondo sconclusionato. E alla fine, a metà tra la sabbia bianca e l'odore di hot dog, mentre i gabbiani danzano sulla ruggine della Parachute Jump, ecco che in mezzo al caos spunta finalmente un sorriso. Perché, come ci dice Dakota, oltre la vita e oltre la memoria, conta sola l'armonia.
Conclusioni
Si riflette, nella scelta linguistica, una certa bravura da parte di Haley Elizabeth Anderson. Nata in Texas, la regista gira a Coney Island il suo film d'esordio, facendo diventare la parte sud di New York un vero e proprio personaggio. Disamina armoniosa sulla difficoltà di una generazione spaesata e impaurita, e della rispettiva ricerca della bellezza. Se manca l'originalità, e il film si rivela poi eccessivamente lungo, Tendaberry è comunque un debutto lucido ed essenziale, che calca il miglior cinema indipendente contemporaneo.
Perché ci piace
- Coney Island.
- Una certa armonia.
- L'omaggio a Nelson Sullivan.
- Il finale.
Cosa non va
- Troppo lungo.
- Originalità latente.