Per il primo documentario della sua carriera Sydney Pollack sceglie di raccontare l'uomo e il genio che stanno dietro Frank O. Gehry, uno dei più famosi architetti del mondo che con le sue mastodontiche ed eccentriche opere, tra le quali spicca senza dubbio il Guggenheim Museum di Bilbao, ha rivoluzionato il campo dell'architettura. Alla conferenza stampa di presentazione di Frank Gehry - Creatore di sogni, in uscita venerdì 30 marzo e distribuito in 12 copie dalla Bim, Pollack dichiara però che questa sua incursione nel documentario è destinata a rimanere un episodio isolato e che è già pronto a tornare al più appassionante cinema di finzione.
Sydney Pollack, da dove è partita l'idea per questo documentario?
Sydney Pollack: Non ho mai studiato architettura e non posso certo dirmi un appassionato di quest'arte, ma la prima volta che ho visto il Guggenheim Museum a Bilbao, realizzato da Frank Gehry, mi sono accorto che aveva un forte impatto emotivo su di me e ciò mi ha incuriosito. Quando mi hanno suggerito di provare a fare un film su Gehry ero titubante perché non so nulla di architettura e poi non avevo mai girato un documentario, ma alla fine ho deciso di realizzarlo perché il suo lavoro mi incuriosiva molto e volevo saperne di più sul processo per cui un uomo così piccolo poteva arrivare a fare un museo così monumentale come il Guggenheim. Una delle ragioni che mi ha spinto ad accettare questo progetto è stato il fatto che non c'erano scadenze prestabilite da rispettare e potevamo girare quando ne avevamo voglia. Ho lavorato a questo film per un solo giorno all'anno, per cinque anni. Le uniche eccezioni riguardano le riprese in Europa, per le quali ho dovuto costituire una troupe di cinque persone incaricate delle riprese nei complessi architettonici realizzati da Gehry in Spagna e in Germania.
Quali sono state le difficoltà maggiori nella sua realizzazione?
Per me è difficile entrare nella testa di qualcuno per capire cosa è davvero la creatività. Da dove vengono certe idee? Cosa succede nel nostro cervello quando creiamo? Non lo so, ma mi piacerebbe capirlo e per questo ho continuato a fare domande a Frank Gehry. Gli chiedevo continuamente "Cosa succede nella tua testa? Cosa fai quando la mattina ti svegli senza alcuna idea?". La cosa più difficile è stato proprio questo cercare di rendere conto del suo processo creativo interiore.
Cosa le è rimasto di questo percorso con Frank Gehry durato cinque anni?
Più lavoravo con lui, più mi rendevo conto che se prendi il processo creativo e lo riduci ai minimi componenti, arrivi agli impulsi più elementari, ti rendi conto che ci sono molte somiglianze con altre arti come la pittura, la musica, la danza, ecc. Se riduci l'impulso artistico e lo porti al suo livello più infinitesimale puoi trasferirlo nella tua propria forma d'arte.
Nel film Gehry dichiara di invidiare i pittori. C'è qualcuno invece che lei invidia?
Tante persone, ma soprattutto gli scrittori. In un'altra vita vorrei rinascere scrittore. La forma più pura d'arte è la scrittura perché è qualcosa che si fa da soli, mentre il mio, come quello di Gehry, è un lavoro collettivo che implica la presenza di centinaia di persone.
Ci sono punti di contatto tra il suo lavoro e quello di Gehry?
Ho imparato, mentre facevo il film, che tra i nostri due lavori ci sono molte più somiglianze di quelle che immaginavo prima di cominciare le riprese ed una di queste è, per esempio, il modo in cui teniamo in grande considerazione, durante il nostro rispettivo processo creativo, la luce. Sia l'architettura che il cinema, comunque, sono forme d'arte mosaiche che assemblano insieme pezzi di altre discipline e si influenzano a vicenda.
Qual è la sua opera preferita di Gehry?
E' un'opera che è stata appena terminata in Spagna, una vineria in un hotel a pochi chilometri da Bilbao. Quello che è bellissimo di questo edificio è che è sempre realizzato in metallo, ma è un metallo che ha un colore ramato straordinario e la struttura si espande in orizzontale.
Questo è il suo primo documentario. E' intenzionato a girarne altri?
Non ho una passione particolare per il documentario. Mi piace guardarli, ma non credo di avere un dono per realizzarli. Ho fatto questo documentario egoisticamente, perché personalmente ero curioso di Frank Gehry. Appena finito questo film altre dieci persone mi hanno chiesto di fare un documentario su di loro, ma nessuna di queste mi incuriosiva. Uno dei miei eroi era Krzysztof Kieslowski, e mi sarebbe piaciuto fare un documentario su di lui, ma ormai è troppo tardi. Lo stesso vale per Stanley Kubrick. In ogni caso preferisco fare storie per costruire altri mondi, perché creare nuovi personaggi è più appassionante per me.
Non c'è nessun attore che la incuriosisce tanto da spingerla a realizzare un documentario su di lui?
C'è un attore a cui sono particolarmente affezionato ed è Robert Redford, con il quale ho fatto tanti film, ben sette, dall'inizio delle nostre rispettive carriere. Quando eravamo ragazzi facevamo film sui ragazzi nell'America degli anni 70, poi siamo diventati adulti e abbiamo fatto film sugli adulti degli anni 80 e quando siamo invecchiati abbiamo portato al cinema i vecchi degli anni 90. La prima volta che ho conosciuto Redford è stato nel 1960 e il primo film che ho fatto con lui risale al 1965. Questo non è abbastanza per spingermi a fare un documentario su di lui, ma resta il fatto che è un attore a cui sono molto legato.
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Io e Anthony Minghella, il regista de Il paziente inglese ed Il talento di Mr. Ripley, abbiamo una casa di produzione e in questo periodo stiamo lavorando ai nuovi film di David Frankel, che ha recentemente diretto Il diavolo veste Prada, e di Stephen Daldry, che tutti ricordiamo per The Hours. Inoltre, stiamo realizzando una serie televisiva, The Number 1 Ladies' Detective Agency, tratta dai libri di Alexander McCall Smith che raccontano di alcune donne che diventano detective in Botswana. Come regista, invece, sto cominciando a lavorare su un film speciale per il canale HBO, un docudrama sulla storia del riconteggio delle schede in Florida durante le elezioni americane che hanno visto Bush vincente di pochissimo su Gore.
E' vero che è intenzionato a girare il remake del film tedesco Le vite degli altri, fresco vincitore del premio Oscar per il Miglior film straniero?
Sì, anche se è un film molto difficile da rifare, ma penso che sia un'opera molto importante e voglio fare questo remake in inglese perché merita un successo internazionale. Non so quante persone in Germania abbiano visto il film, ma dobbiamo trovare un modo di raccontare questa storia per farla conoscere in tutto il mondo. Non è solo un film intellettuale, ma anche di intrattenimento, è un thriller che insegna molte cose sulla natura umana.
Oltre ad essere regista e produttore, lei è spesso anche attore per altri registi. Cosa la spinge a voler recitare sotto la direzione di un suo collega?
Recito solo per una ragione: spiare gli altri registi. Il regista non ha mai modo di vedere come lavorano i suoi colleghi perché questi tendono a controllare il proprio territorio. Ho appena finito di girare un film che probabilmente sarà presentato alla prossima mostra del cinema di Venezia. Si intitola Michael Clayton, è interpretato da George Clooney ed è diretto da Tony Gilroy, un regista esordiente ma di grande talento. Inoltre, ho interpretato un piccolo ruolo nella nuova serie di The Sopranos che partirà questa settimana negli Stati Uniti ed io sarò presente nella seconda puntata.