Radi sta per realizzare il sogno di uscire in mare con un peschereccio tutto suo. Shiem si divide tra la casa famiglia per anziani che dirige ed il volontariato. Sonia è la proprietaria del più famoso ristorante cinese di Roma. Ana e Ljuba hanno aperto una galleria d'arte a Monti dopo che la guerra ha cambiato il loro destino. Sono le Strane straniere raccontate da Elisa Amoruso. Un documentario che nasce dall'omonimo studio antropologico firmato da Maria Antonietta Mariani nel 2012 per raccogliere le storie di donne arrivate nel nostro Paese per le motivazioni più diverse e che qui sono riuscite a realizzarsi umanamente e professionalmente.
Strane Straniere, in sala dall'8 marzo grazie ad Istituto Luce Cinecittà, ha già vinto il Premio Afrodite come miglior documentario dell'anno per aver mostrato "come le donne sono capaci di ricostruire la propria identità oltre l'emigrazione, il dolore, le delusioni, la fatica di un vivere che non meritava il loro piccolo grande coraggio". La regista le segue nel loro quotidiano, entrando nelle loro vite con la stessa rispettosa grazia già mostrata in Fuoristrada, e ne raccoglie confessioni e ricordi intimi. Il risultato è la fotografia di un'immigrazione diversa e radiosa che rifugge lo stereotipo per sottolineare la tenacia di cinque donne diverse eppure accomunate dal medesimo desiderio di rivendicare la propria identità e realizzare i propri obiettivi. Ne abbiamo parlato con Elisa Amoruso che ci ha raccontato, inoltre, le difficoltà incontrate durante e dopo le riprese e di cosa significhi per lei realizzare un documentario.
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La forza della diversità
Come si è evoluto il tuo lavoro da Fuoristrada, documentario d'esordio realizzato senza nessun finanziamento pubblico, a Strane Straniere?
È diventato più professionale. Ho studiato al Centro sperimentale come sceneggiatrice, non come regista. Fuoristrada è stata una scommessa. Avevo già scritto dei film ma avevo girato solo un corto. All'epoca il documentario non fu finanziato anche per l'argomento e la difficoltà della storia. Le adesioni le abbiamo raccolte tutte dopo e per noi è stata una grande sorpresa.
Cosa ti ha attirato verso le storie di queste cinque donne?
Quando mi è stato proposto il progetto mi ha interessato perché non c'era più un singolo personaggio. Tutte donne e tutte storie, in modo analogo a Fuoristrada, di realizzazione individuale. Persone che hanno fatto della loro diversità una forza e non un difetto. Il tema si prestava a raccontare una questione attuale in una chiave inedita ed avendo già realizzato un altro documentario le Istituzioni si sono fidate di più.
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Questo ha influito sulla realizzazione del documentario?
Sia Rai Cinema che l'Istituto Luce ci hanno creduto tanto ma fare questo film è stato difficile, molto più del precedente. Essere finanziati non ha affatto reso le cose più semplici. È stata una lavorazione faticosa probabilmente perché è la natura del progetto in sé ad esserla. Non mi sono affidata ad un personaggio trainante ed unico come Beatrice che, in qualche modo, andava da solo. Ho dovuto rendere appassionanti le storie di cinque donne solo apparentemente più normali e che invece racchiudono una loro particolarità. In confronto Fuoristrada è venuto fuori quasi spontaneamente.
A cosa imputi questa difficoltà?
Principalmente all'avere tanti personaggi. Ogni volta mi dicevo che sarei dovuta rimanere di più su una delle protagoniste rispetto ad un'altra. La sfida era trovare un collante che le mettesse tutte insieme. Ho cercato di farlo attraverso le interviste che riguardavano aspetti della loro vita più intima.
Hai parlato di una vera e propria esigenza che ti ha spinto a raccontare queste storie. Una necessità che ti accomuna alla tenacia delle tue protagoniste, donne determinate a raggiungere il loro obiettivo nonostante le difficoltà incontrate.
Sicuramente. È difficile per chiunque sceglie una professione competitiva, dalla regia al giornalismo. A maggior ragione se a farlo è una donna. Credo che, ancora oggi, se vuoi realizzare un sogno fai un po' più fatica rispetto agli altri se sei femmina. Ogni giorno devi lottare per raggiungere quello che vuoi. Una caratteristica presente in tutte le protagoniste del film. Per me è stato più facile comprenderle e per loro, forse, è stato più facile accettarmi perché sentivano che la mia battaglia portava avanti la loro. Ci siamo unite nello stesso scopo.
Lasciarsi sorprendere
Come per Fuoristrada segui le protagoniste immergendoti nella loro quotidianità. Come vivi la fine delle riprese?
Le lasci perché smetti di filmarle ma poi ci vivi insieme tutti i giorni perché le rivedi al montaggio. Non c'è un vero e proprio strappo, solo un modo diverso di viverle. Devi trasformare l'atteggiamento più istintivo e sentimentale delle riprese in una posizione più lucida e cinica che ti permetta di decidere cosa può entrare nel film e cosa, invece, deve rimanerne fuori. Ho girato più di cento ore e trovare i fili che unissero queste donne è stato difficilissimo.
La tua è la fotografia di un'integrazione felice, dove il pregiudizio resta ai margini del racconto.
Devi essere aperto quando ti relazioni con qualcuno tanto diverso da te. Con Pino/Beatrice era così. Ma in realtà ho sempre cercato di valutare tutti gli incontri che ho fatto, specialmente in senso professionale, senza avere un pensiero a priori. Questa è la difficoltà del documentarista. Ti devi mettere nella posizione di qualcuno che ascolta prima ancora di qualcuno che ha un suo punto di vista. Quello che faccio è spogliarmene e accogliere quello che arriva. Quest'attitudine ti aiuta a non avere un'idea preformata su quella realtà che stai interrogando e dalla quale vorresti venisse fuori qualcosa. Altrimenti è difficile che quella materia diventi viva. Rimane solo quello che tu hai già deciso di raccontare. La bellezza di un documentario è proprio di lasciarti sorprendere quando meno te l'aspetti.
Il commento musicale non è mai invasivo e molto calibrato. Come hai lavorato con i compositori, Mattia Carratello e Stefano Ratchev?
Abbiamo parlato prima dell'inizio delle riprese. Hanno iniziato a comporre mentre giravo. Gli avevo raccontato il tipo di tonalità e sensazione dei vari momenti del film. Loro mi hanno fatto delle proposte che abbiamo provato sulle immagini per poi aggiustarle o modificate a seconda delle scene.
Nasci come sceneggiatrice. Questo ti ha avvantaggiata nell'organizzare la struttura narrativa di Strane Straniere prima di iniziare a girare?
Inizialmente la struttura narrativa era presente ed anche molto forte ma era pensata per tre donne e c'era un'altra protagonista che non ha più potuto prendere parte al documentario. Questo ha ingarbugliato tutto. La fatica, in fase di montaggio, è stata proprio quella di trovarne una nuova con l'inserimento della quarta storia. Per come era stato scritto, il film aveva una maggiore tenuta drammaturgica. Il tema della religione, ad esempio, aveva più spazio, mentre ora viene solo sfiorato perché non appartiene a tutte le protagoniste. C'è stato un rimescolamento delle carte nel quale ho dovuto trovare una drammaturgia a posteriori in un materiale che però non è narrativo.
Tra punti di riferimento e cinema di finzione
Quali sono i tuoi riferimenti documentaristici?
Amo molto i film di Gianfranco Rosi, specialmente Sotto il livello del mare - Below Sea Level. Un altro autore che mi piace moltissimo è Roberto Minervini. Un suo film al quale sono affezionata è Stop the Pounding Heart. Era stato presentato a Cannes e quando l'ho visto ho amato il fatto che seguisse i due personaggi come in un flusso emotivo. Era quello che volevo fare con Strane Straniere senza esserci riuscita fino in fondo dato che i miei di personaggi erano cinque e avei avuto bisogno di molto più tempo. Ma è quello il linguaggio che mi appartiene di più e che vorrei sperimentare.
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Come vedi il documentario italiano oggi?
Si sta iniziando a dare una diversa dignità artistica ad un genere che veniva considerato di serie b. Anche se c'è ancora un grande problema per i documentari italiani che, ancor prima, appartiene ai film: non vengono distribuiti in sala. Aver fatto un lavoro tecnico di color, mix, musiche, penalizzato dal poco tempo nel quale il tuo lavoro rimane in sala, tanto da farti quasi pensare che forse non valeva la pena realizzarlo.
Hai mai pensato di dirigere un film di finzione?
C'era l'idea di fare un film ambientato tra Italia e Polonia. Avevo anche preso un finanziamento che ho restituito al Ministero dei Beni Culturali perché era molto piccolo e veniva a mancare la co-produzione con la Polonia. Con quelle basi non si poteva costruire una pellicola invece molto legata ad una presenza polacca. Nasceva tutto dal fatto che ho frequentato un Master di regia a Varsavia alla Scuola di Wajda grazie al quale sono entrata in contatto con un mondo di attori e produzioni del posto. Ora sto lavorando ad un nuovo progetto di sceneggiatura per un film di finzione ma siamo ancora ai posti di partenza.