"Ci siamo già incontrati, mi pare." "Non mi sembra... e dove ci saremmo visti?" "A casa tua, l'hai dimenticato?" "No, no, è impossibile; ne è sicuro?" "Altroché. Ad essere più precisi, sono lì in questo istante..."
Alice Wakefield, con la lunga chioma bionda scossa dal vento, offre i suoi baci al giovane Pete Dayton. I fari della Cadillac squarciano l'oscurità della notte, trasfigurando i corpi dei due amanti in un'indistinta sagoma bianca. "Did I dream you dreamed about me?/ Were you here when I was full sail?", si domanda la voce angelica di Elizabeth Fraser, accompagnando l'amplesso di Pete ed Alice. È la dolcissima Song to the Siren di Tim Buckley, nella struggente cover incisa nel 1983 dal collettivo This Mortal Coil, a trasportarci nell'etereo romanticismo di questa scena d'amore, momento cruciale di Strade perdute: la fine della canzone segnerà infatti - letteralmente - la fine del sogno, una nuova cesura fra i due percorsi paralleli su cui è costruito il cult-movie diretto nel 1997 da David Lynch.
Opera del ritorno del regista americano dietro la macchina da presa a oltre quattro anni di distanza da Twin Peaks - Fuoco cammina con me (lavoro all'epoca assai sfortunato, salvo essere rivalutata in seguito), Strade perdute funge da ideale trait d'union fra la precedente produzione di David Lynch e il successivo Mulholland Drive, summa della poetica lynchiana ma allo stesso tempo anche suo superamento. E come spesso accade ai film di 'passaggio', Strade perdute nasce come un progetto destinato inesorabilmente a spiazzare e a dividere; eppure si tratta di un capitolo essenziale nell'itinerario di un cineasta che, dopo aver rivoluzionato il linguaggio cinematografico e televisivo (nel 1997 non si è ancora spenta la fragorosa eco di Twin Peaks), prova a spingersi ancora più oltre, demolendo ulteriormente i codici del noir e anticipando temi e ossessioni che si riveleranno centrali nella cultura popolare a cavallo fra vecchio e nuovo millennio.
L'uomo che visse due volte
"Dick Laurent è morto", è l'ermetica frase ascoltata al citofono, all'inizio del film, da Fred Madison, sassofonista jazz interpretato da Bill Pullman. Siamo nel sottobosco dello show-business losangelino, tra feste in piscina e villette a schiera, che fra i loro arredi di fredda eleganza celano tensioni striscianti: per Fred si tratta della frustrazione per la sua incapacità di consumare i rapporti sessuali con la moglie Renee (Patricia Arquette) e dell'angoscia provocata dalla scoperta che un peeping Tom sta spiando la sua vita domestica, filmandola su delle videocassette. La paranoia per l'intimità violata, fra le principali inquietudini della contemporaneità, è il tarlo che scava nella mente di Fred e che si materializza nella spaventosa figura con il ghigno sardonico di Robert Blake. L'incontro fra i due uomini, con quella telefonata 'impossibile' chiusa da un'agghiacciante risata, è rimasto non a caso la scena più celebre di Strade perdute, l'ingresso definitivo nei territori dell'uncanny valley.
L'uomo del mistero, che è insieme 'qui' e 'altrove', ci fornisce un primo esempio di sdoppiamento. Se gli echi, i riflessi, la duplicità già costituivano uno dei nuclei di Twin Peaks, anche Strade perdute è un racconto bifronte, imperniato su due storie e due protagonisti: il Fred di Bill Pullman, che subisce passivamente una realtà ostile e beffarda, e il Pete Dayton di Balthazar Getty, l'aitante meccanico che prenderà il suo posto nella seconda parte dell'opera. Se l'elemento del doppio è per sua stessa natura legato al sentimento del perturbante, ecco dunque che Lynch popola il suo film di Doppelgänger, a partire dal polo di attrazione incarnato da Patricia Arquette: dalla bruna Renee Madison alla bionda Alice Wakefield, seducente vamp che compare nell'officina di Pete muovendosi al ralenti e, sulle note di This Magic Moment di Lou Reed, assume per lo sguardo di Pete i contorni di una fantasia erotica a portata di mano.
Mulholland Drive, Strade perdute e Twin Peaks: il doppio in David Lynch
"Hear me sing, swing to me": il canto della sirena di David Lynch
Se la prima metà di Strade perdute si presenta come un dramma surreale che sfocerà in un incubo squisitamente lynchiano, la 'sostituzione' di Fred con Pete sancisce l'avvio di un altro film: un tipico noir alla James M. Cain, con il triangolo di passioni, la femme fatale e perfino il brutale gangster di turno, il Mr. Eddy di Robert Loggia. Un film dalla volgarità smaccata e dalla brutalità a tratti quasi ridicola, in cui i codici del filone vengono rielaborati secondo la sensibilità pulp degli anni Novanta: dai video pornografici girati da Alice nel lusso pacchiano della villa di Eddy all'heavy metal e all'industrial rock della colonna sonora, che include brani di Smashing Pumpkins, Nine Inch Nails, Marilyn Manson e Rammstein, oltre alla sinistra I'm Deranged di David Bowie sui titoli di testa. Ma il gusto per l'eccesso e l'esasperazione dei cliché non sono un vezzo manieristico: corrispondono invece a quell'immaginario ben preciso in cui si rifugia la mente di Fred.
Con quattro anni d'anticipo su Mulholland Drive, nel 1997 David Lynch sfidava il proprio pubblico con un meccanismo narrativo strutturato come un sistema di scatole cinesi, suggerendo chiavi di lettura psicanalitiche agli enigmi che ci pone davanti, ma soprattutto giocando con gli stilemi del thriller per tornare a evocare gli spettri del subconscio. Immergersi in Strade perdute, film ellittico che sembra riavvolgersi su se stesso, equivale a vagabondare in un territorio sconosciuto eppure dai tratti familiari, costantemente in bilico fra bellezza e orrore: perché perfino lì, fra individui mostruosi e abissi di abiezione, Lynch è pronto a squarciare le tenebre con un raggio di poesia. "Hear me sing, swim to me/ Swim to me, let me enfold you/ Here I am, here I am/ Waiting to hold you", è il canto della sirena Elizabeth Fraser, mentre Fred/Pete infine si lascia avvincere dal suo meraviglioso, mortale incantesimo.
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