"L'ho messo sulla libreria. Nel frattempo ho scoperto un po' di cose. La prima è che te ne danno una testa, la seconda che ti spediscono a casa la targhetta adesiva con il nome". Incontriamo Stefano Sardo al Riviera International Film Festival un paio di giorni dopo aver vinto il David di Donatello per la miglior sceneggiatura non originale per L'arte della gioia insieme a Valeria Golino, Francesca Marciano, Valia Santella e Luca Infascelli. Lo sceneggiatore è stato protagonista di un talk dedicato proprio alla scrittura. E da professionista affermato qual è, non abbiamo potuto non chiedergli quali siano per lui le migliori sceneggiature di sempre. "L'appartamento, Fight Club e Ritorno al futuro", dichiara senza troppa esitazione.
Il discorso ai David di Donatello

Stefano Sardo è stato uno dei protagonisti della cerimonia di premiazione e tra coloro che, durante il discorso di accettazione, ha usato quella manciata di secondi per portare il reale all'interno del Teatro 5 di Cinecittà riferendosi a quello che sta accadendo a Gaza. "Mi sembrava un po' indecente andare lì e dirsi solo: 'Sono contento. Grazie mamma, grazie papà'", riflette Sardo. "Perché quando penseremo a questi anni, ci domanderemo perché abbiamo fatto finta di niente difronte a una cosa così brutta. Non sapevo neanche se avrei parlato".
"Però, quando ho visto che gli altri mi hanno fatto un cenno, sono andato. Ho preso l'occasione per far presente a tutti noi che mentre eravamo a festeggiare, là fuori sta succedendo un disastro. Dopo di me alcuni che hanno avuto un po' più di tempo hanno articolato dei bei discorsi. Penso a Margherita Vicario, ad Elio Germano, a Francesca Mannocchi. Mi è sembrato fosse una cosa da fare, ma non per sembrare migliore di ciò che si è o mettersi uno scudettino di persona illuminata sul petto. Semplicemente perché mi sembrava che fosse il minimo sindacale".
"Ovvio che è difficile trovare la misura tra il non guastare la festa a chi si vuole godere quel momento di gratificazione e l'occasione di farsi sentire", continua lo sceneggiatore. "Penso, ad esempio, che Pupi Avati l'abbia usato molto bene proprio perché non è un regista di sinistra e non ha l'etichetta di quello vidimato dalla maggioranza dei colleghi. Ha avuto una grandissima carriera, ma sicuramente era ben visto il suo premio, se non incoraggiato dalla parte più filogovernativa della manifestazione. Ha sfruttato questa benevolenza per metterli di fronte alla realtà e dire: ' Ricordiamoci che là fuori un sacco di produttori indipendenti stanno morendo'".
"E io sono anche un produttore indipendente so benissimo quanto la contingenza sia soffocante. Soprattutto nel fatto che ogni decisione politica è legittima se avvallata da un sostegno elettorale. L'importante è che le decisioni politiche siano rese operative, qualunque esse siano. Invece quando c'è indefinitezza per un anno e mezzo tu sei appeso a una specie di aspettativa e cerchi di sopravvivere. Però se poi te lo chiudono del tutto, sei sopravvissuto per niente. Tanto valeva chiudere prima".
Cinema Revolution e il problema delle sale
Proprio dal palco della masterclass tenuta al Riviera International Film Festival, Matteo Garrone ha sottolineato quando per lui l'iniziativa Cinema Revolution non serva a nulla per risollevare le sorti dell'industria cinematografica. Qual è l'opinione di Stefano Sardo? "Non mi piace la riduzione del biglietto, non penso che lo svuotamento delle sale sia un problema di costo, ma di offerta. E non solo cinematografica", spiega lo sceneggiatore. "C'è sicuramente un dubbio su cosa è oggi un oggetto da sala cinematografica e cosa è invece un oggetto da visione casalinga. Ho vinto un David con L'arte della gioia che è nato come visione casalinga per poi andare in sala. Una decisione che ha suscitato anche delle polemiche".
"Ma al netto delle polemiche, c'è sicuramente un problema editoriale di cos'è un oggetto da chiamata cinematografica. Soprattutto penso che il problema sia legato al concetto stesso di sala. In larga parte sono inadeguate a offrire un'esperienza piacevole al pubblico", prosegue Sardo. "In moltissimi cercano di basare la forza dell'offerta semplicemente sul film e non c'è il piacere di andare in quel posto, se non nella dimensione multisala. Ma l'offerta cittadina di un luogo dove stare prima e dopo la proiezione penso sia stata poco cavalcata. Il cinema deve essere un luogo dove vai volentieri e non per questo devi abbassare il valore dell'esperienza abbassando il prezzo. Perché se lo fai pagare 3 euro stai dicendo che vale poco".
Muori di lei, tra Riccardo Scamarcio e Maria Chiara Giannetta: "Bisogna tornare a correre il rischio""Non disdegno lo sforzo di cercare di mandare la gente in sala l'estate, non credo che sia sbagliato culturalmente. Credo però ci sia un'arretratezza di sistema nel pensare ai motivi per cui uno esce e va al cinema. Certe volte la sala è 2k e a casa hai il 4k. Se vado al cinema voglio stare bene. Non voglio vedermi un film con i sottotitoli e quindi dover andare in una sala più piccola. Vorrei che fosse un luogo dove vado a testa alta. L'esercente eroico a me fa tristezza, perché mi sembra che stiamo facendo qualcosa che non frega niente a nessuno. 'Tendo la bandierina nel territorio. Non faccio numeri però ci sono'".
La produzione di Io e il Secco
Ai David di Donatello, nella cinquina dei migliori esordi dell'anno, c'era anche Io e il Secco di Giancula Santoni. Un'opera prima tra le più belle del nostro cinema degli ultimi anni con protagonisti Andrea Lattanzi, Barbara Ronchi, Andrea Sartoretti e il piccolo Francesco Lombardo. Tra i produttori lo stesso Sardo. "È stato molto difficile metterlo in piedi", confessa. "E trovo sia un po' assurdo che ai David di Donatello non siano invitati i produttori degli esordi, perché per un produttore è il lavoro più difficile. Mi sembra una visione culturalmente un po' strabica".

"Tornando al film è stato un lavoro molto gratificante. Michela Straniero e Gianluca hanno lavorato moltissimo sulla sceneggiatura e io sono stato la loro controparte. Penso che soprattutto nell'opera prima devi arrivare sul set avendo uno script che non traballa", riflette Sardo. "Credo Gianluca abbia fatto un film emotivamente molto emozionante. E questa è una cosa abbastanza rara. Facciamo sempre un cinema un po' asettico, freddo. Siamo in difficoltà con l'emotività. Mentre gli inglesi che sembrano anaffettivi in confronto a noi ci vanno giù con le emozioni. Vedi Adolescence e piangi come un bambino quando quel padre stringe l'orsacchiotto".
"Nei film italiani si piange poco. Il film di Francesca Comencini, che poteva avere più riconoscimenti ai David, è un film dove si piange. Ma è molto raro. Io e il Secco è un film dove ridi e ti commuovi. Non sei ricattato dall'argomento della violenza di genere, ma lo vedi con gli occhi di un bambino. C'è, è vera, è cruda, però è un'avventura umana divertente. Abbiamo lavorato tanto per cercare di farlo entrare in cinquina, facendo una "lobby umana". È un film che ha vinto premi ovunque è andato. Ce l'ha detto anche Nanni Moretti a BimbiBelli che con una distribuzione più fiduciosa poteva diventare un piccolo caso di pubblico".
Carême
Tra i progetti più recenti di Stefano Sardo anche la sceneggiatura di alcuni episodi di Carême, la serie targata Apple TV+ con protagonista Benjamin Voisin dedicata alla figura del primo chef star del mondo durante la Francia napoleonica. "L'head writer è Davide Serino, un caro amico che era stato nel mio staff writer quando facevamo 1992 e 1993", racconta lo sceneggiatore. "Ha chiamato me e Alessandro Fabbri dicendo che aveva bisogno di una mano perché c'erano stati dei problemi nella gestione del team con cui si era trovato a lavorare. Così abbiamo scritto una puntata a testa in un progetto che era molto di corsa, perché aveva dei tempi di produzione fissi, ma era abbastanza sparecchiato dal punto di vista narrativo"_.
"È stato molto divertente perché abbiamo avuto una mano libera creativa partendo da un progetto che aveva delle basi solide dal punto di vista creativo grazie a Davide che aveva scritto un bellissimo pilota. E poi sono fanatico di cucina, quindi per me era un divertimento superiore. È stato un lavoro di artigianato su commissione. Siamo arrivati, abbiamo aperto la valigetta e risolto il problema (ride, ndr)".
Nemesi
Tra i prossimi progetti che portano la sua firma c'è, invece, Nemesi. Una serie Netflix diretta da Piero Messina con protagonista Pierfrancesco Favino, Barbara Ronchi ed Elodie. La storia di un uomo, Tommaso Gherardi (Favino), erede di una ricca famiglia di imprenditori milanesi accusato di aver ucciso sua moglie Gloria (Elodie). Tutte le prove lo inchiodano, almeno fino a quando ad assumere la sua difesa è Diana Potenza (Ronchi), un'avvocata che nella vita si è fatta strada con fatica e determinazione. Sarà lei a scoprire la verità, complessa e inaspettata, che si cela dietro l'omicidio. "Un thriller che esplora il tema del destino e delle imprevedibili conseguenze di chi osa sfidarlo", come recita la trama ufficiale.

"Stanno girando, saranno ancora per circa quindici settimane sul set", svela lo sceneggiatore. "È un progetto che abbiamo iniziato a scrivere dieci anni fa e che inizialmente avevamo pensato per gli Stati Uniti. Più o meno dopo 1992, con Nicola Giuliano ci venne questa idea in mente. Si spinse molto per provare a farne una miniserie direttamente per il mercato americano perché è un crime con moltissimi livelli di sorprese, di punti di vista. È un gioco narrativo molto spericolato. Per anni abbiamo provato facendo riunioni e avendo molto interesse attorno. Poi siamo tornati in Italia e inizialmente lo voleva fare la Rai quando c'era Tinny Andreatta. Una volta passata a Netflix ha insistito portare il progetto con se".
Un rimprovero agli sceneggiatori italiani
Reduce da una vittoria importante per la categoria che rappresenta, c'è qualcosa che Stefano Sardo rimprovera agli sceneggiatori italiani? "Sì, un sacco di cose", confessa Sardo. "Passo il tempo a rimproverare tutte le altre categorie per come trattano gli sceneggiatori, quindi per una volta posso mettermi nella parte dell'autocritica. Il basso profilo è la cosa che più mi sembra sbagliata. Siamo la categoria con il tasso di creatività più alto nel cinema. Partiamo dallo zero e arriviamo a completare il progetto di un film, col tono, i personaggi, le scene, i punti di vista, le battute. Però, a volte, è difficile rintracciare la nostra personalità specifica che si diluisce nel percorso fino ad essere cancellata. Facciamo tutto il lavoro e poi il merito è di qualcun altro"_.
"Non è colpa nostra, ma spesso abdichiamo a una nostra visione per metterci a servizio di quella di qualcun altro. Perché è più facile e ti crea meno conflitti. E perché in fondo sei più funzionale a un sistema dove ti dicono che cosa vogliono fare. Però quando perdi la possibilità di generare racconti da zero, perdi la tua specificità di scrittore. E su questo secondo me il nostro cinema ha risentito un po' di una scrittura troppo a servizio. Invece quando l'idea non è eterodiretta ma sgorga da te, ha un'esigenza e necessità più forte".
"Un'altra cosa importante è che ci vorrebbe più coesione nelle battaglie", chiosa lo sceneggiatore. "Abbiamo combattuto poco per affermare diritti sacrosanti. Non prendiamo soldi dal box office di un film. È una cosa incredibile che fa anche capire perché c'è meno urgenza in quello che scriviamo dato che non fa la differenza se va bene o male. Al di là dei soldi, credo sia folle da un punto di vista culturale".