Fin qui tutto bene, recitava il titolo del secondo film di Roan Johnson. La recensione di State a casa, il suo nuovo film, in uscita il 1 luglio al cinema, distribuito da Vision Distribution, parte da questa frase. Il riferimento però è a L'odio, e alla metafora di un uomo che precipita da un palazzo molto alto, e si ripete, a ogni piano "fin qui tutto bene". Perché il problema non è la caduta ma l'atterraggio. È un po' quello che accade ai protagonisti di State a casa, in cui un fatto innesca una sorta di caduta verso un baratro da cui sarà difficile tornare indietro. Sembra andare tutto bene, fino a un certo punto, ma poi... Diciamolo subito, State a casa parla proprio di quello a cui fa pensare quella frase: la pandemia e il conseguente lockdown dovuto al contenimento del Covid 19. Roan Johnson affronta un problema che il cinema, rare eccezioni a parte, ha sembrato voler rimuovere, quello del virus e tutto quello che ha comportato. Roan Johnson lo ha preso di petto, con una dark comedy coraggiosa, per nulla banale, densa di significati. Un film vitale, sincero, che non ha paura di dirci che no, in fondo è non è andato tutto bene. È anche un film incerto sulla direzione da prendere, e sul finale. Ma anche questo ha un senso, come vi spiegheremo. Quello che non è affatto incerto è il messaggio che Johnson vuole mandarci: l'organismo che questo virus ha colonizzato per vivere è la Terra. E il virus che rischia di ucciderla siamo noi. Più chiaro di così...
Siamo tutti in lockdown
Il mondo è bloccato da una pandemia, e tutti noi siamo in lockdown. Quattro ragazzi sotto i trent'anni condividono un appartamento da tempo, e vanno d'accordo. Ma la convivenza forzata, il non poter uscire fa venir fuori i loro istinti peggiori. Spatola, il loro equivoco padrone di casa, minaccia di aumentare loro l'affitto, mentre qualcuno ha perso il lavoro. E pare anche provarci con Benedetta, una delle ragazze. L'occasione per fare dei soldi facili proprio a scapito suo porterà il film a un crescendo di tensione e delirio. Tutto questo mentre un serpente gira libero per la casa. Dicono che non è velenoso. Però...
La precarietà di una generazione
In State a casa Roan Johnson prende di petto la pandemia, non usa metafore o storie alternative. È il nostro Covid-19, il nostro lockdown, quello che abbiamo vissuto tutti. Sin dai primi dialoghi, ironici e taglienti, si fa riferimento alla retorica dell'"andrà tutto bene", agli applausi dai balconi, cose che, in effetti, hanno lasciato il posto a ben altri comportamenti e ben altri problemi, a una realtà molto diversa. "Dobbiamo poterci fidare l'uno dell'altro" dicono però i quattro amici. Che non devono fare i conti solo con la paura del Covid. Ma con il lavoro che scompare, con il portafoglio che è vuoto, con l'affitto da pagare. Fate attenzione ai continui cambi di umore dei quattro ragazzi. Guardate alla reazione che hanno davanti ai soldi, che non hanno mai visto prima. In quelle reazioni, in quelle scelte anche sbagliate c'è tutta la precarietà di una generazione (ma ormai sono due o tre) continuamente appesa a un filo, sempre in bilico. L'intuizione di Roan Johnson è quella di provare a tornare indietro di vent'anni, quando era uno di questi ragazzi. E di aver capito che non è vero che la pandemia ha reso tutti uguali. No, perché chi era più debole, più povero, più indifeso, dopo il Covid-19 lo è stato ancora di più.
I Fratelli Coen che incontrano Paolo Virzì
E ha raccontato tutto questo in un film dai molti volti, in fondo schizofrenico come sono state le nostre giornate al chiuso, il disorientamento, la solidarietà, la speranza e poi la diffidenza, lo scoramento, le accuse. Lo potremmo definire una dark comedy, una commedia nera, i Fratelli Coen che incontrano Paolo Virzì. Complice lo spleen toscano portato da Lorenzo Frediani, che interpreta Nicola, e un dialogo serrato, brillante, all'inizio sembra di essere proprio in un film di Virzì. Quando si vira più sul nero sembra una dark comedy che appartiene più al cinema americano. Per gran parte del film tutto sembra funzionare: le dinamiche tra i personaggi, i tempi di recitazione (frutto di lunghe prove prima di girare le scene). C'è ironia, tensione, uno spaccato sociale dell'Italia di oggi. Il film diverte, e tiene in ansia per le vicende. Anche in alcune scene "oniriche" che è raro trovare nel cinema italiano. Fin qui tutto bene.
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I piani sequenza di Johnson
Roan Johnson, forte del periodo prima del film in cui, in un altro appartamento che non era quello del set, ha potuto provare a lungo le scene prima di girarle, ha organizzato il suo film con lunghi piani sequenza, che mettono in risalto l'affiatamento e la bravura di un cast scelto attentamente, e allo stesso tempo davano il senso del vivere in un posto chiuso, senza uscita, senza possibilità di prendersi una pausa, uno stacco. La scelta, coraggiosa, a livello di montaggio, ha completato questa scelta: ha usato pochissimi tagli all'inizio, e molti di più dopo, rendendo il film più frenetico, man mano che le cose precipitavano.
Giordana Faggiano, la rivelazione in un cast perfetto
Tutto questo sarebbe stato impossibile senza un cast scelto con attenzione e messo nelle migliori condizioni per lavorare. Di Lorenzo Frediani abbiamo detto: è l'anima che porta quel suo spleen toscano che, nella prima parte, porta il film verso una commedia più tipicamente italiana. Dario Aita è Paolo, sfrontato e passionale come poteva esserlo un Marco Cocci a inizio carriera. Ma sono le due ragazze a bucare lo schermo. Martina Sammarco è Sabra, ragazza africana saggia e misurata, stranamente calma di fronte a tutto quello che sta succedendo. L'attrice riesce a dare vita al personaggio più misterioso del film. E poi c'è Giordana Faggiano, nel ruolo di Benedetta, il motore del film. I capelli ricci e selvaggi, lo sguardo tagliente, le lentiggini e un irresistibile accento barese (imparato duramente, nonostante le sue origini). La sua Benedetta irrompe nel film con la sua esuberanza, con la sua sfrontatezza, e Giordana recita con tutto il corpo. E con un volto particolarissimo, che manca nel cinema italiano. Nel cast è perfetto anche Tommaso Ragno, ormai (per fortuna) onnipresente nel nostro cinema, che porta il suo fare lascivo e il suo soma inconfondibile al personaggio di Spatola. Nota a margine, c'è un altro attore nel cast, ed è Fabio Traversa, nel ruolo del portiere. È l'attore famoso per aver interpretato Fabris in Compagni di scuola, una parte che lo ha un po' ingabbiato. In questo film lo guardi e non pensi a Fabris, ed è un altro merito di Roan Johnson. Fin qui tutto bene.
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Il problema è l'atterraggio
Il problema, come nella storia che ci racconta L'odio, evocato anche all'inizio e alla fine del film, è l'atterraggio. perché State a casa perde un po' il controllo proprio nei momenti in cui si avvicina al finale. Quell'ansia che contribuiva alla riuscita del film, nel finale aumenta forse a dismisura. Non parliamo della suspense per la trama gialla, ma di un'ansia esistenziale, per il futuro, per la malattia, che sembra prendere il sopravvento e sopraffare gli altri ingredienti del film, che erano in fondo ben dosati fino a pochi minuti dalla fine. È come se sfuggisse di mano al regista. È probabilmente funzionale al messaggio che vuole dare. Il punto è che porta il film verso un luogo forse troppo distante dalle premesse che aveva posto. Spiazzare il pubblico è sicuramente una qualità, ma una commedia nera non può svoltare all'improvviso verso la tragedia elisabettiana, non può cambiare completamente registro, perdendo completamente quell'ironia che l'aveva caratterizzata dall'inizio. È probabile che Johnson abbia voluto lasciare il suo messaggio alla fine, lasciando il film libero di avere una vita sua.
Un film che racconta il nostro qui e ora
Eppure State a casa è un film vitale come pochi ne abbiamo visti di recente. Anche questa sua incertezza sul tono e sulla strada da prendere nel finale, è in fondo un simbolo delle nostre vite ai tempi del Covid-19. Tutti noi ci siamo trovati incerti sul da farsi, ci siamo guardati intorno e abbiamo scelto la nostra strada seguendo l'istinto. È un film forte e irrisolto, è un po' come siamo noi tutti oggi. State a casa è un film che racconta il nostro qui e ora, quello che visto tra dieci anni avrà ancora senso, anzi di più, perché ci racconterà un periodo preciso. Ci sono due teorie quando accadono dei fatti come questa pandemia. Che bisogni aspettare il momento giusto per raccontarli, far decantare i fatti, oppure che sia il caso di tirare fuori subito emozioni e sensazioni. Roan Johnson ha scelto questa via e ha fatto bene. E, se il titolo dice State a casa, voi non ascoltatelo e andate al cinema.
Conclusioni
Nella recensione di State a casa vi abbiamo parlato di un film che affronta la pandemia e il lockdown. Un tema che Roan Johnson ha preso di petto, con una dark comedy coraggiosa e per nulla banale. State a casa è un film vitale, sincero. È anche un film incerto sulla direzione da prendere, e sul finale. Ma, in questo, è proprio come siamo stati noi in questi mesi e come siamo oggi.
Perché ci piace
- Il coraggio di affrontare un tema come la pandemia e il lockdown e farne una commedia nera.
- Il cast, azzeccato e sfruttato al massimo con lunghi piani sequenza.
- L'idea di raccontare la generazione più precaria, quella più colpita.
- La capacità di alternare toni e registri...
Cosa non va
- ... che però alla fine sfugge di mano, facendo prevalere un tono tragico che mal si adatta alle premesse del film.
- In questo senso il finale sembra eccessivo e sembra stridere con il resto del film.