C'è un momento preciso nella prima parte di Springsteen: Liberami dal Nulla - dal 23 ottobre al cinema - che definisce accuratamente il cuore del film di Scott Cooper. Il Boss con il volto di Jeremy Allen White, a bordo della sua nuova auto perfetta per una "dannata e bella rock star", se ne sta tornando a Colts Neck nella casa appena presa in affitto in New Jersey. Alla radio passano Hungry Hearts, e Bruce, dopo un laconico No detto tra sé e sé, la spegne frettolosamente. Troppo rumore attorno a lui, troppe aspettative. Reduce dal River Tour del 1981, decide di tornare a casa per rallentare e "provare a cercare qualcosa di autentico".

Lo troverà nella musica folk, nella visione di Furore di John Ford, ne La rabbia giovane e nella vera storia del serial killer Charles Starkweather che ispirò Terrence Malik, così come nella lettura dei racconti gotici di Flannery O'Connor che lo spingeranno a scrivere dei suoi ricordi d'infanzia. Ed è proprio sul bianco e nero del 1957 che si apre la pellicola. Quando Bruce, ancora bambino, veniva mandato dalla madre interpretata da Gaby Hoffman a recuperare il padre - un sempre gigantesco Stephen Graham - al bancone del bar dove trascorre il tempo a bere. Un copione sempre uguale che prosegue con furiose urla e grida tra le mura di una casa dove cresceva terrorizzato.
No, Springsteen: Liberami dal Nulla non è un biopic

Dopo aver debuttato al lungometraggio con Crazy Heart, in cui raccontava la storia ispirata a quella del cantante country Hank Thompson, Scott Cooper con Springsteen: Liberami dal Nulla si confronta con uno dei simboli più rappresentativi della musica degli Stati Uniti. Ma non ne celebra il mito, non ne fa un santino rock. Tutt'altro. Partendo dalle pagine di Deliver Me from Nowhere di Warren Zanes, Cooper scrive una sceneggiatura in cui al centro c'è il Bruce uomo. Quello dei traumi irrisolti, del rapporto complesso con il padre, della depressione, della paura di confrontarsi con se stesso e guardarsi dentro. Quello terrorizzato all'idea di esplodere a livello mondiale con la sua musica e di lasciarsi alle spalle il mondo da cui viene insieme alle persone che lo abitano.
Non un biopic, ma la fotografia di un momento preciso della sua esistenza. Dentro la camera da letto della sua casa, tra una chitarra acustica e un registratore a quattro tracce, Bruce Springsteen scrive un disco crudo, popolato di storie di uomini che provano a cambiare il corso delle loro esistenze senza riuscirci, di memorie della sua infanzia. Un album simile a una raccolta di racconti e non un'insieme di singoli come si aspettava la casa discografica per continuare ad alimentare la macchina.

Ad aiutare Springsteen nel realizzare l'album e a superare le sue difficoltà troviamo la figura chiave del suo storico manager Jon Landau (Jeremy Strong). Uno degli incontri più importanti della sua vita, amico e confidente, oltre che figura paterna, che lo supporta e spalleggia nello svelare al mondo quelle 17 tracce che il Boss non volle spiegare né alla stampa né al suo pubblico. Una mossa poco ortodossa, eppure l'unica possibile quando tra le mani si maneggia materiale così delicato.
Scott Cooper ci mostra la genesi dei brani, l'ossessione per il suono autentico e imperfetto, il tormento interiore del cantautore. Ma c'è una certa convenzionalità che accompagna il racconto. Se siamo lontani dal bignami in immagini di titoli come Bohemian Rapsody o Back to Black, è anche vero che la regia, intima e ancorata a primi piani strettissimi, non ci regala nessuna sorpresa finendo per realizzare un'opera senza grandi picchi dal punto di vista formale.
Jeremy Allen White incarna alla perfezione Bruce Springsteen

Ciò che invece funziona e traina Springsteen: Liberami dal Nulla è l'interpretazione di Jeremy Allen White che incarna in modo viscerale il cantautore statunitense. La sua è una prova emotivamente potente, con un grande lavoro sulla voce e la cadenza tipica del Boss. Ma, sopratutto, è un'interpretazione che ne abbraccia l'inquietudine e il vigore. Ne è un esempio la sequenza di registrazione di Born in the U.S.A. (uno dei pochi momenti prettamente musicali del film), intonata dall'attore come tutti i brani presenti del film.
Un'operazione simile a quella di James Mangold in A Complete Unknown con Timothée Chalamet nei panni di Bob Dylan. Due film che in qualche modo si parlano - specie nella "classicità" della messa in scena -, ma che raccontano due uomini/simboli agli antipodi.

Se Dylan si è "nascosto" dietro un paio di occhiali da sole neri, Springsteen si è dato anima e corpo ai suoi fan accorciando le distanze, rappresentando la working class americana da cui viene e che non ha mai abbandonato. Uno dei temi su cui si focalizza Springsteen: Liberami dal Nulla. Un film malinconico come il suono di un'armonica folk su un uomo "born to run" che finalmente decide di smettere di correre per fermarsi e affrontare faccia a faccia "qualcosa che scorre nelle vene della mia famiglia".
Conclusioni
Scott Cooper decide di stare lontano dalla formula del biopic tradizionale per concentrarsi su una parentesi della vita del cantautore di Born in the U.S.A.. Quella della realizzazione di Nebraska e della necessità di registrarlo in assoluta solitudine durante un momento di profonda crisi personale. Il risultato e un film classico dal punto di vista della messa in scena, ma che deve tanto all'ottima interpretazione di Jeremy Allen White. L'attore si trasforma nel Boss per restituirne il tormento e la creatività, le paure e il dolore. Un film dal respiro intimo, dove le sequenze musicali sono ridotte al minimo, e che guarda all'uomo più che al mito.
Perché ci piace
- L'interpretazione di Jeremy Allen White
- La scelta di concentrarsi su un momento preciso
- Le sequenze dedicate alla genesi del disco
- Stephen Graham e Jeremy Strong
Cosa non va
- Chi si aspetta in film di grandi scene musicali resterà deluso
- Il filone romantico può apparire addirittura superfluo