Sopravvivere alla notte
Nell'euforia per la ritrovata vitalità del cinema italiano, generata dalla qualità delle pellicole apprezzate e premiate a Cannes, qualcuno aveva inserito anche Il resto della notte di Francesco Munzi nel lotto dei film che avevano contribuito alla sua cosiddetta rinascita. Dopo aver visto la seconda opera del pur brillante regista romano, duole ammettere che così non è affatto, perché Il resto della notte rivela uno squilibrio incolmabile e colpevole tra risultati raggiunti sui piani di forma e di contenuto. Perché stilisticamente il film di Munzi è davvero impeccabile: sempre asciutto, ma ricco di suggestioni e con una bella armonia tra musica e immagini, capace di dotare di senso anche location apparentemente anonime (dalla villa dei ricchi borghesi ai non-luoghi come una piazza o la riva di un fiume) e puntale nel cogliere luci e ombre dei propri protagonisti, senza mai cadere nel patetico o nella sottolineatura forzata dei loro sentimenti. Una ricchezza davvero encomiabile quella che possiede sotto questo punto di vista il film, che rinnova perciò la fiducia in Munzi quale talento da coltivare per un futuro di opere migliori. Il problema sta in quello che Il resto della notte racconta.
Già a voler aprire il film con un sermone sull'ingordigia dell'Occidente si rischia grosso, perché si cade in territori troppo pericolosi se non si ha la sapienza necessaria per affrontarli. A Munzi non giova certo il gran parlare che si sta facendo di questi tempi sulla questione rumena, una campagna mediatica sul pericolo dell'altro che ha portato a una vera e propria demonizzazione dello straniero, e del rumeno in particolare, perché il regista sceglie di parlare essenzialmente del marcio di questo popolo ormai al primo posto della nostra lista nera. Lo fa perciò costruendo un autentico assediamento dei rumeni nei confronti degli italiani dall'inizio alla fine del film: i mendicanti che tormentano la ricca signora pretendendo l'elemosina, la colf che ruba nella casa dei ricchi che le hanno aperto le porte della propria cucina, l'immigrato che contribuisce a rimpolpare le sacche della criminalità in Italia, la più classica delle rapine in villa destinata a finire male. D'altra parte Munzi non è tenero neppure nei confronti degli italiani che rappresenta: ricchi, annoiati, nevrotici, traditori, fobici, incapaci di dare ascolto ai propri figli e via discorrendo. E così i luoghi comuni si sprecano e fanno a gara per presentarsi svuotati di ogni senso agli occhi degli spettatori. Non manca quindi il marito che tradisce la moglie con una ragazza più giovane che d'improvviso non ci sta più a essere solo l'amante, o il giovane criminale e marito separato che s'imbottisce di droga e rapisce il figlio per vederlo, o ancora il rumeno costretto al crimine per sopravvivere in una società che lo costringe ai margini e non gli offre alternative.
Munzi resta pericolosamente ambiguo in questa sua indagine del sociale, macchia tutti i protagonisti di colpe e li accomuna nella tragedia per guardarsi bene dall'esprimere il proprio punto di vista sul confronto tra italiani e stranieri. E' il sistema a essere malato, noi tutti siamo vittime e carnefici insieme, paralizzati da una ricchezza che non può essere goduta o da una miseria che viene combattuta con i metodi più squallidi e codardi per non implodere nel dolore. Il regista lavora durante tutto il film per collegare tra loro le singole storie dei vari protagonisti, per portarli tutti sullo stesso campo di battaglia, giungendo così a una resa dei conti senza prima aver tentato il dialogo. Provando a seguire le briciole delle loro vite, non arriva però molto lontano e la sensazione è quella del digiuno dall'amaro in bocca che non dà risposte e non fa nascere doverose domande, ma rimane ancorato alle perplessità. Si giunge così al termine senza sapere dove il regista voglia andare a parare, ma il lampo arriva proprio nel finale, con una scena che assicura al film una sua dignità, illuminandolo inaspettatamente, quando cioè la telecamera incontra finalmente il giovane fratello rumeno del rapinatore, rimasto a fare da palo durante la rapina. Su di lui si ferma per cogliere lo smarrimento nei confronti della piega tragica degli eventi, la sua ansia e la sua disperazione, mentre fuori campo si consuma il drammatico epilogo delle storie degli altri che sono in quel momento anche la sua. La sensazione è quindi quella che Munzi abbia sbagliato il tempo e i volti del suo film, concentrandosi sulla banalità di un percorso che si conclude in una tragedia da prima pagina dei quotidiani, piuttosto che partire dalla presa di coscienza di quel ragazzo catapultato d'improvviso in una spietata realtà che non concede una seconda chance.