Opera che racconta la crisi, fotografia di un difficile momento storico, ma soprattutto ricostruzione dell'impatto, traumatico e in alcuni casi devastante, che la situazione economica ha avuto su quella parte del tessuto sociale (la piccola e media imprenditoria) che costituisce il polmone vitale dell'economia italiana. Solving, opera prima del regista Giovanni Mazzitelli (una lunga gavetta, per lui, tra cinema e televisione, all'interno della quale spicca la sceneggiatura dell'indipendente Vitriol) è tutto questo; ma è, anche, esempio che riesce ad emergere di una tradizione (quella del documentario) che, come il regista ha tenuto a specificare, ha sempre fatto parte della storia del nostro cinema; ma che solo ora, grazie all'impatto dei riconoscimenti di grandi festival, come quelli di Venezia e Roma, sta finalmente acquistando una sua specifica visibilità.
Di questi argomenti, di quelli più specifici legati al film, e della difficile realtà sociale che questo racconta, abbiamo parlato con Mazzitelli, in una stimolante chiacchierata telefonica.
Come hai conosciuto Salvatore Mignano, e com'è nato questo progetto?
Giovanni Mazzitelli: Già dal 2011 avevo intenzione di fare un film che raccontasse la crisi e il suo risvolto sugli imprenditori italiani. In seguito, ho conosciuto Salvatore lavorando a Vitriol, film prodotto dalla sua SMC; allora, ho capito che dal suo esempio potevo trarre qualcosa di interessante, visto che da tutto il mondo giungevano imprenditori per contrattare prodotti per quello che è il suo settore principale, ovvero gli accumulatori di energia. A quel punto, ho pensato di poter iniziare a raccontare questa storia: lui in un primo momento era restio, e ha detto che avrebbe accettato solo se avessimo inglobato il fenomeno dei suicidi imprenditoriali, che in quel periodo stava aumentando sempre più di volume. Inizialmente io non volevo incentrare il film su questo tema, perché pensavo sarebbe stato strumentalizzato; poi, nel 2012, quando ci fu il suicidio di Giuseppe Campaniello, mi sono reso conto che non si poteva parlare di crisi e imprenditoria italiana senza toccare anche questo fenomeno. Da giugno, così, ho iniziato a raccogliere il materiale; avevo un canovaccio iniziale, ma l'ho continuamente modificato per far sì che si applicasse ancora meglio al materiale che via via raccoglievo.
In tutto, sul mio hard disk alla fine avevo circa 600 gigabyte di dati: un materiale considerevole, che corrispondeva a una quantità di girato tra le 20 e le 30 ore. La lavorazione effettiva del film è durata da giugno 2012 a giugno 2013, anche se il progetto effettivo era nato prima, già dalla fine del 2011. Gli ultimi ritocchi sono stati dati verso settembre 2013, e poi a ottobre abbiamo fatto la prima proiezione di test per il pubblico; il test è stato estremamente positivo, quindi da lì non abbiamo cambiato più nulla. In tutto, quindi, il progetto ha impegnato un tempo complessivo di circa due anni.
Che tipo di percorso distributivo avrà il film?
Per ora è prevista una distribuzione sul territorio nazionale in 15 sale, ma per la prossima settimana contiamo di raggiungere le 20; una cifra che per un documentario rappresenta una distribuzione notevole, con un investimento molto forte. Successivamente, verrà fatta una canalizzazione in circuiti specifici, come i cineclub e la distribuzione nelle scuole; in seguito, poi, il film avrà un'ulteriore circolazione a livello di festival indipendenti.
Com'è nato il coinvolgimento di Francesco Alberoni?
Fin dall'inizio, la mia intenzione era rappresentare il tutto attraverso dei simboli: a livello linguistico, infatti, la mia scelta è stata quella di non prendere una posizione esplicita all'interno del film. Non volevo fare un film che fosse a favore e contro la tesi: ciò avrebbe creato ulteriori carnefici, mentre il carnefice in realtà è solo la crisi. Il miglior linguaggio quindi era quello "voyeurista", che osservasse i personaggi, anche da molto vicino, senza prendere una posizione precisa. A livello narrativo, quindi, servivano dei simboli: così come Salvatore Mignano e Tiziana Marrone erano simboli dal punto di vista delle "vittime collaterali" della crisi, Alberoni, Franco Di Mare e Sergio Luciano erano emblemi dell'analisi di questa dal punto di vista di cronaca, socio-economico ed antropologico. Tra l'altro, sono stato molto fortunato, perché loro erano proprio le mie prime scelte, e hanno appoggiato da subito il progetto: Alberoni, in particolare, oggi a 85 anni non rilascia più interviste a nessuno. Da questo punto di vista, quindi, mi sento un privilegiato. Lui, poi, ha parlato per tantissimi anni di questi argomenti; ultimamente ha anche pubblicato una biografia su Pietro Barilla, e conosce bene imprenditori come Montezemolo e Della Valle. Persone che rappresentano una "casta" diversa da quella mostrata nel film, che è più piccola dal punto di vista economico ma più grande numericamente. Tuttavia, è sbagliato fare distinzioni rigide tra piccoli, medi e grandi imprenditori, visto che alla base di questo mestiere c'è sempre la stessa mentalità.
Credo che, da quelle che sono la mia età e la mia esperienza, cedere al pessimismo sarebbe presuntuoso ed inappropriato. La possibilità di modificare la realtà è una possibilità che è data alle persone, alla popolazione: io mi rivolgo ai ragazzi della mia età e faccio l'invito a non abbattersi, perché noi, in realtà, non conosciamo davvero la crisi. Quando un male non si conosce, si tende ad abbattersi e a farsi schiacciare; ma, se ci si informa, se si riesce a capire quali sono i nostri limiti, ma anche i nostri diritti, si può recuperare un po' di ottimismo. Attenzione, però: ottimismo significa rimboccarsi le maniche, darsi da fare in prima persona per uscire da una situazione critica. E' quello che fa il mio protagonista. Un imprenditore, ma non solo lui, non può non lavorare in funzione di una speranza: un personaggio di 2046 di Wong Kar-wai diceva proprio "finché non si rinuncia, si può sperare". Non si può non combattere nell'auspicio che la situazione diventi più agevole; e, dal mio punto di vista, non si può non dare un messaggio che non contempli questa speranza. Che si parli di impressa, o più in generale di vita.
Una domanda provocatoria. Nel panorama politico italiano c'è stato chi ha sostenuto, non senza polemiche, che esiste anche un'evasione fiscale "di sopravvivenza". Alla luce di ciò che racconti nel tuo film, cosa pensi di questa presa di posizione?
Il problema è a monte: noi italiani non ci rendiamo conto che, se andiamo avanti su questa strada, diventeremo un paese di servizi, pari alla Grecia. L'evasione, così come l'IMU, è solo la punta dell'iceberg, la conseguenza ultima di un sistema economico che in sé è farraginoso. Io, comunque, non ho visto evasione da parte degli imprenditori che ho intervistato: ma questo, principalmente, perché loro non possono permettersi di evadere, né di commettere irregolarità nelle assunzioni, vista l'entità delle sanzioni. Ciò non toglie, comunque, che nero ed evasione siano fenomeni che esistono: e purtroppo sono due dei sistemi che agevolano il riciclo di denaro nell'economia. Se non ci fosse evasione, non ci sarebbe probabilmente neanche la possibilità di spendere, mancherebbero i soldi e alla fine si bloccherebbe l'economia. È un cane che si morde la coda, purtroppo, e non siamo noi che possiamo risolvere il problema. L'Italia, tra l'altro, da un punto di vista economico non è più una nazione indipendente: non lo è più da quando è entrata nell'Euro, e quando ci è entrata non aveva la potenza economica che aveva la Germania. Un parametro come il PIL, tra l'altro, è ingannevole: producono PIL le aziende come quella di Salvatore Mignano, così come lo produce un'automobile che consuma benzina, ferma a un semaforo. E' solo un indice di consumo, che non ha necessariamente una valenza positiva. Noi potremmo salvarci grazie alle nostre potenzialità dal punto di vista eno-gastronomico e culturale: ma purtroppo non siamo capaci di sfruttare neanche quelle.
Sì, fortunatamente nessuno è stato licenziato. Come si vede nel film, Salvatore riesce a ottenere nuovo lavoro nel mercato del Mediterraneo, che oggi è uno dei più floridi; grazie a questo investimento, riesce a ripianare i debiti e a rinnovare la cassa integrazione. Cassa integrazione sembra una brutta parola, ma chi ha conosciuto la realtà del lavoro dipendente, sa che questa può essere una semplice condizione transitoria, ed è ben diversa dalla perdita del posto di lavoro.
Nel realizzare questo documentario, avevi in mente modelli cinematografici particolari?
Da un punto di vista linguistico, due dei miei punti di riferimento più recenti sono gli ultimi lavori di Matteo Garrone, Gomorra e Reality; da un punto di vista narrativo, invece, mi ha colpito Corde di Marcello Sannino, vincitore della sezione Documentari del Torino Film Festival nel 2009; e poi La bocca del lupo, di Pietro Marcello, dello stesso anno. Spostandoci fuori dall'Italia, sempre dal punto di vista linguistico e per alcune tipologie di riprese, credo di essere stato influenzato anche da un film come Rosetta dei fratelli Dardenne. A fare da collante al tutto, comunque, c'è una tradizione come quella del cinéma vérité, che è quella a cui sostanzialmente mi rifaccio.
Un commento sull'affermazione di Sacro GRA a Venezia e di Tir a Roma, e sullo stato attuale del documentario in Italia?
Da un punto di vista di pubblico, questi risultati sono certamente una benedizione: la gente, finalmente, viene "scolarizzata" nell'andare a vedere anche questo tipo di film. Va detto pure che bisogna sfatare certi miti sul pubblico: la verità è che il pubblico, quando esce un buon film, lo va a vedere. Nel decennio scorso sono usciti film di qualità come Oldboy, Match Point, Gomorra, Il divo: tutti grandi successi al box office. L'importante è invogliare il pubblico, stimolarlo: il processo di scolarizzazione a un "cinema verità", o allo stesso documentario, in Italia è arrivato come al solito più tardi che in altri paesi; ma comunque è un bene che sia arrivato. In paesi come Germania, Francia e Inghilterra, non viene fatta nessuna distinzione tra documentari e opere di fiction; ancor meno in un paese come gli Stati Uniti, dove c'è un grande lavoro di sperimentazione sul linguaggio. E' grave, a livello istituzionale, che un festival come quello di Venezia abbia dato questo riconoscimento ad un documentario soltanto nel 2013; seguito poi, a ruota, da un festival più glamour come quello di Roma. Ma, comunque, meglio tardi che mai. Certo, poteva accadere molto prima: abbiamo avuto tantissimi titoli, nella storia del nostro cinema, che sarebbero stati degni di un simile riconoscimento. A livello di autori, abbiamo avuto grandissimi documentaristi: basti pensare a Silvano Agosti, uno che ha fatto la storia del documentario non solo in Italia, ma anche nel mondo. Eppure, ora autori come lui ora sono praticamente dimenticati. E' una cosa che mi fa rabbia, questa. Cinema di fiction e documentario sono generi che non dovrebbero avere distinzione, il cui confine è molto labile.
La collaborazione con Salvatore Mignano proseguirà in nuovi progetti?
La SMC ora ha in pre-produzione un progetto molto impegnativo, che verrà realizzato col sostegno del Comune di Campobasso, della Regione Molise e del Ministero dei Beni Culturali: si tratta di un film che racconterà la storia di Delicata Civerra, la santa patrona della città di Campobasso, che ebbe una vita molto travagliata nel periodo rinascimentale. Sarà un film basato su una ricostruzione storica complessa, quindi probabilmente la sua produzione necessiterà molto tempo: la regia sarà di un mio collega, Alessio Torisano, che già mi ha dato una mano nella post-produzione di Solving, mentre io vi sarò coinvolto in termini di direzione artistica.
Per quanto riguarda invece i miei prossimi progetti personali, in questo momento sto lavorando su un progetto che, da un punto di vista linguistico, avrà sempre i connotati del cinéma vérité, ma sarà più di fiction da un punto di vista strettamente narrativo.