Recensione Un giorno della vita (2010)

Per questo suo esordio nel lungometraggio, Giuseppe Papasso bandisce sapientemente ogni enfasi, mantenendo una semplicità di sguardo, quasi una timidezza nell'incedere del racconto, che vuole essere la stessa che caratterizza l'ottica del piccolo Salvatore.

Sognando Maciste e... Anita Ekberg

Il piccolo Salvatore sogna ad occhi aperti. Sogna talmente forte, e con tanta convinzione, che per realizzare i suoi sogni finisce persino in riformatorio. Figlio di una famiglia contadina della Basilicata, nel pieno di quel boom che, in quelle terre immobili e come cristallizzate nel tempo, viene appena avvertito, il ragazzino vive i suoi sogni attraverso le immagini proiettate su uno schermo; e appena può corre, sfreccia sulla sua bicicletta insieme ai suoi amici, tagliando i campi arsi dal sole, per raggiungere lo scalcinato cinema del paese vicino, dove si nutre di film di Maciste e "scrocca" persino la visione di Anita Ekberg nella nota scena della fontana de La dolce vita. Ma Salvatore vuole di più, vuole scegliere i suoi film e proiettarseli da solo, nonostante suo padre, contadino comunista, ma molto reazionario in famiglia, pensi che quelle immagini incorporee siano solo sciocchezze atte ad addormentare le coscienze e ad evitare l'avvento della rivoluzione. Così, Salvatore ruba un bel gruzzolo di soldi dalla locale sezione del partito, messi da parte dai militanti per andare a Roma ai funerali di Togliatti, per comprare un proiettore; e si allea persino con il "nemico" per eccellenza, il prete del paese, per mettere su una sala proiezioni che da subito attira un gran numero di persone. Ma la coscienza è un bel problema, anche per un ragazzino di dodici anni: confessato il furto, il padre gliela farà pagare duramente, scegliendo per lui l'istituzione repressiva e borghese per eccellenza: il riformatorio.


I modelli di questo Un giorno della vita, esordio nel lungometraggio del regista di documentari e spot Giuseppe Papasso, sono ben evidenti, e peraltro riconosciuti dallo stesso regista. C'è senz'altro un debito con I 400 colpi di François Truffaut, anche se qui non troviamo lo stesso clima pessimista e la stessa carica di denuncia sociale del film che inaugurò la Nouvelle Vague; c'è lo scontato riferimento a Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, echi dell'antropologia di provincia che ha avuto in Don Camillo e Peppone i suoi più noti protagonisti, ma soprattutto quell'elegia dell'infanzia, quella scelta di prospettiva che vuole restituire la limpidezza dello sguardo infantile, che da Stand by me - Ricordo di un'estate ha attraversato il cinema occidentale fino ad arrivare al nostrano Io non ho paura di Gabriele Salvatores. Non c'è dubbio che il film di Papasso si nutra di queste suggestioni, peraltro particolarmente adatte ad essere raccontate su uno sfondo come quello dell'assolata provincia italiana, specie meridionale: le corse in bicicletta, la scoperta di uno spazio che agli occhi di un ragazzino sembra il mondo, i compromessi, spesso la grettezza del mondo adulto (anche di quello che dovrebbe essere preposto ad educare) contrapposti allo sguardo puro e alla disarmante schiettezza di comportamenti di un bambino. Uno dei motivi più interessanti del film è tra l'altro proprio l'opposizione tra il sogno terreno del padre, quello di una trasformazione della società che lo porta però a trascurare la necessità, ben più urgente, di trasformare e rendere più vivibile il microcosmo della sua famiglia, e il sogno più ingenuo ma paradossalmente più concreto del piccolo Salvatore, che va molto più vicino a realizzarsi e certo riesce ad incidere di più sulla vita delle persone che gli stanno intorno.

La regia di Papasso bandisce sapientemente ogni enfasi dal racconto della vicenda, narra la storia dal punto di vista del protagonista (che a sua volta la racconta, in un lungo flashback, ad un bravo Alessandro Haber, nel ruolo del giornalista che gli fa visita in riformatorio) ma mantiene una semplicità di sguardo, quasi una timidezza nell'incedere del racconto (tralasciando ogni accezione negativa del termine) che vuole essere la stessa che caratterizza l'ottica di Salvatore. Le emozioni sfacciate non hanno motivo di cittadinanza in una storia che si racconta da sé, in cui basta la recitazione, naturale e riuscita, del giovanissimo Matteo Basso, l'intensa colonna sonora di Paolo Vivaldi e la massimizzazione della resa dei set rurali, palcoscenico perfetto per le avventurose scorribande dei tre protagonisti. E poi, in fondo, echi della società rappresentata nel film arrivano fino ai giorni nostri, e poco importa se qualche figura (quella del prete, a cui dà vita un comunque efficace Ernesto Mahieux, o la madre interpretata da Maria Grazia Cucinotta) appare un po' stereotipata: a quegli stereotipi in fondo ci siamo affezionati, emblemi come sono di un tempo in cui eravamo tutti un po' più ingenui, certo più propensi a perderci in quei sogni di celluloide che ben ci rappresentavano. E il coraggio mostrato dal regista nel proporre un finale che spezza la sostanziale sobrietà del resto del racconto, facendo finalmente trapelare l'emozione laddove questa era necessaria, è sicuramente un merito non da poco.

Movieplayer.it

3.0/5