In ogni genere cinematografico talvolta basta un'unico aspetto (il plot twist) per constatare la riuscita o meno dell'operazione filmica. Per quanto riguarda l'horror, con alle spalle topoi classici e regole ben codificate, questo passaggio è spesso obbligatorio ma può anche trasformarsi in una trappola mortale. Se poi, sopra ogni altra cosa, la situazione evocata scatena la tragedia attorno all'isolamento geografico di personaggi colti da una 'provvidenziale' tempesta di neve, allora ogni maldestro elemento preso in prestito da altre fonti migliori (vedi Stanley Kubrick, Wes Craven) raggiunge livelli di guardia allarmanti. Fino a rimpiazzare l'inquietudine con il comico involontario.
È l'associazione che salta subito all'occhio guardando Shut In (letteralmente rinchiudere), immerso tra il paesaggio notturno e quello claustrofobico degli spazi interni (la proverbiale villa isolata) in cui di continuo si posticipa l'azione. Thriller psicologico low budget che saccheggia Shining (al limite del plagio) e confonde le tracce citando il cinema di John Carpenter, il film sceneggiato da Christina Hodson sembra però agli antipodi delle premesse: scegliendo un andamento tanto angusto e povero a livello narrativo, a cui occorre quasi un'ora per accrescere la sua gravitas emotivo. Tra sensi di colpa, temi edipici, misteriose sparizioni, rapporti burrascosi fra genitori e figli, il regista Farren Blackburn punta decisamente in alto, ma la sua vena minimalista sbatte sull'horror vacui (con annesso 'sinistro' scantinato) e non aiuta una storia che fa acqua da tutte le parti.
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Mary Portman (Naomi Watts) è una psicologa infantile che vive e lavora in un angolo remoto del Maine rurale. Un giorno, in un terribile incidente stradale, rimane vedova del marito ed è così costretta a occuparsi del figliastro diciottenne Stephen (Charlie Heaton) ridotto in stato vegetativo. Sei mesi più tardi, mentre si prende cura del ragazzo, le pressioni cui è sottoposta arrivano all'apice emotivo. Nemmeno le sessioni via Skype con il suo supervisore (Oliver Platt) la aiutano, quando, in una notte d'inverno, il suo paziente sordo di nome Tom (Jacob Tremblay) si palesa improvvisamente alla porta. Da lì, inizieranno una serie di strani eventi che condurranno Mary ad un'agghiacciante scoperta finale.
Salti, patemi e tanta noia
Dramma a cornice familiare, Shut In langue nella distaccata indifferenza di una produzione evidentemente sub-televisiva. Dove tutto precipita in allucinazioni tangibili e scare jumps comandati da archi dissonanti, un po' per voglia di citazionismo, un po' per mancanza di idee. Al pari dell'estraneo Oliver Platt che accorre in soccorso per essere sacrificato, anche la regia di Blackburn si sussegue sfiancante dietro al meccanismo di suspense che tarda puntualmente ad arrivare. Un repertorio trito e ritrito fatto di apparizioni fugaci, inermi, che mai incutono lo spavento o fanno volare l'immaginazione e il raccapriccio. A sorprendere, quindi, è la presenza di un'attrice nota e talentuosa come Naomi Watts, che tanto aveva già dimostrato in passato nel genere (Mulholland Drive, The Ring). Per quanto ci provi, struggendosi d'impegno, l'effetto desiderato non offre alcun particolare valore aggiunto. Laddove poi molte somiglianze singolari ricordano il più riuscito The Boy (in sala proprio quest'anno), dall'altra ogni antefatto scricchiola dinanzi al volto dello 'svelato' antagonista che lascia esterrefatti per banalità ed incoerenza.
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Caricato ancor più da una fotografia sui toni scuri, Shut In sprofonda infine tra le nebbie stilistiche che, prevedibilmente, non avevano ragione sufficiente per uscire da un infausto destino. E forse, trattenuto il mistero si sarebbe anche ottenuto un risultato migliore. Perché con evidente imbarazzo, lo script della Hodson lascia invece molti caduti sul campo. Incolpevole il restante cast capitanato dal bambino prodigio Jacob Tremblay (la star di Room) e seguito dal bravo Charlie Heaton, tra i protagonisti del successo Stranger Things. Figure ora grigie ora neutre, dentro un'atmosfera soporifera che aleggia fin dalla primissima inquadratura. Confinando lo spettatore più dalle parti di un'assordante noia che in quelle della vera paura.
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Movieplayer.it
1.5/5