Arrivati al secondo giorno, la 17a edizione della Festa del Cinema di Roma regala già un film sorprendente e articolato. Si intitola Sanctuary ed è stato anche presentato e applaudito al Toronto International Film Festival lo scorso settembre. Nell'evento capitolino gareggia in concorso ufficiale e merita attenzione. Alla regia il talentuoso Zachary Wigon, alla sua opera seconda dopo il bel The Heart Machine e riconoscibile in una cifra stilistica a ridosso dell'autoriale e molto accattivante. Sa cosa vuole e sa come realizzarlo, il filmmaker americano anche critico cinematografico, e si intuisce da come parla e analizza la sua stessa opera, come vuole allontanare ogni presunzione artistica fine a se stessa per motivare e analizzare e raccontare un lavoro di testo, regia e immagini piccolo e composto ma molto ragionato e dannatamente elettrizzante. Merito di un'impianto registico virtuoso e ben elaborato, di una sceneggiatura a due piani di lettura dal concept stratificato e da continui cambi di ritmo e anche di due interpretazioni straordinarie della coppia protagonista, formata da Margeret Qualley (The Nice Guys, C'era una volta a Hollywood) e da Christopher Abbott (Catch-22, Possessor). Ed è lo stesso Wigon a parlarci degli aspetti più rilevanti dello sviluppo e della realizzazione del film.
Chitarra e basso
Cosa da sapere su Sanctuary: la prima e più importante è che parla di un ricco uomo facoltoso che incontra nella sua camera d'albergo una dominatrice. La seconda è che è interamente ambientato in una suite di un hotel. La terza è che, nonostante le apparenze, è un titolo di grande respiro cinematografico, tanto visivo quanto contenutistico. "La prima ispirazione viene da un certo interesse per il ruolo della dominatrice", spiega Wigon: "Non per il ruolo in sé, ma per un discorso di potere. Durante la fantasia del cliente, la donna in questione ha un controllo e dominio totale sulla stessa e sull'uomo, ma nella realtà la cosa è invertita se non addirittura annientata. Volevo ragionare su questo paradosso, drammatizzandolo e dandogli forma e contesto". Per questo ha ideato insieme allo sceneggiatore Micah Bloomberg (All Is Lost, Homecoming su Prime Video) uno script puntiglioso e a prova di bomba. Il perfezionamento ha però richiesto due attori di livello: "Non c'è la minima improvvisazione, da parte nostra o degli attori" - continua Wigon - "è tutto nella sceneggiatura. Ci sono state due sessione di reading room, due prove generali e poi abbiamo girato. Margaret e Christopher hanno capito benissimo i ruoli e sono riusciti a spingersi oltre, interpretando le due parti meravigliosamente".
Su di loro ha solo grandi elogi e analogie musicali: "Margaret è estremamente affascinate. Nel film ha lo slancio e l'energia di una chitarra elettrica, intensa e vibrante, riuscendo a passare tra tutte queste dinamiche interpretative ogni volta che una distorsione differente. Christopher è come un basso, invece: lascia trasparire un'emozione viva in superfice ma poi sotto riesce a descriverne tante altre nascoste, che in qualche modo emergono comunque". Non a caso non ci sono stati provini: tanto Wigon quanto Bloomberg hanno sviluppato Sanctuary pensando subito alla Qualley e ad Abbott, inviandolo loro lo script concluso e senza riflettere su possibili sostituti. E i due hanno immediatamente accettato le parti.
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Le permutazioni del dominio
Una stanza, due persone, mille sfaccettatura diverse. È così che regista e sceneggiatore hanno impostato l'opera, in modo apparentemente semplice ma con tanti sedimenti differenti, strati da scoprire uno dopo l'altro. "Volevamo che il film fosse veloce e propulsivo", racconta Wigon: "L'idea era di realizzare un titolo mai noioso o ripetitivo, motivo per cui abbiamo pensato di drammatizzare ogni possibile permutazione tra questi due personaggi, anche rispetto al concetto stesso di potere e dominio".
In sostanza in Sanctuary, tra le mura di una camera d'hotel, assistiamo a ogni differente modo di relazionarsi tra due protagonisti: "E a mio avviso è questo a rendere il film così interessante e attrattivo in termini d'intrattenimento", riflette ancora il regista. Bisognava però dare respiro al pubblico, che in un'ora e mezza poteva avvisare una certa claustrofobia cinematografica. È così arrivata la suddivisione non esplicita in capitoli, caratterizzata da transizioni luminose e quasi lisergiche: "Ho avvisato l'esigenza di dare fiato allo spettatore, non essendoci in termini visivi. A un livello più profondo, sperando di non peccare di presunzione, desideravo anche rappresentare in quei momenti il funzionamento dell'inconscio, l'elaborazione di quanto accaduto, il mutamento intimo della situazione". E conclude con una nota personale: "Il mio è di base un lavoro d'intuito: cerco di descrivere emozioni e immagini come le percepisco possibili, meno dal punto di vista intellettuale o concettuale a tutto tondo. Per questo cerco di smussare anche parti meno pertinenti, che di fatto portano a poco o sono troppo fini a se stesse, per arrivare al cuore dell'idea, a una canalizzazione ragionata dei colpi di scena e della loro utilità. E spero che questo abbia reso il film il più propulsivo possibile".