All'inizio i toni dovevano essere quelli di una commedia, ma alla fine l'esordio alla regia di Katja Colja, Rosa, scritto insieme a Elisa Amoruso e Tania Pedroni, è diventato l'esplorazione intima del piacere femminile che non ha età e di un'elaborazione del lutto che passa attraversa un ritorno alla vita della protagonista evocata sin dal titolo e interpretata da Lunetta Savino.
"L'idea - spiega la regista durante la presentazione del film alla stampa - nasce da mia madre, che dopo il grave lutto di mio padre ha iniziato a rivivere, si è innamorata un'altra volta; da figlia ero sorpresa, non l'avevo mai vissuta come una donna che a sessantacinque anni sembrava una ragazzina di diciotto, l'avevo sempre e solo vista come una madre. La morte ci tocca tutti, ma è difficile raccontarla. Come volontaria sono stata in un gruppo di madri che hanno perso i propri figli e una signora mi ha fatto notare che in nessuna lingua esiste una parola che possa raccontare la perdita di un figlio. È complicato farlo con le parole, meglio i silenzi. Sono partita da qui".
Rosa, la recensione: Della femminilità ritrovata
Lunetta Savino si mette a nudo
Interpreti un personaggio completamente esposto, senza pelle. Ti metti a nudo...
Katja Colja: Mentre scrivevo Rosa non pensavo a chi avrebbe potuto interpretarlo, ho fatto dei casting e ho visto molte attrici, di Lunetta mi ha sorpreso l'interiorità, la verità, la sua delicatezza e sensibilità. Ho visto in lei una poesia e una emotività molto forte, ha saputo restituire i sentimenti che ho sempre voluto raccontare già durante la preparazione film.
Lunetta Savino: È stato un lungo parto con tanti inciampi, incertezze, tanto da non sapere se saremmo riuscite a fare il film. C'è voluta la perseveranza di Katja e dei produttori perché andasse in porto, perché era un progetto non scontato, di quelli che in Italia non si fanno. Con Katja abbiamo parlato molto e ci siamo raccontate tanto in questi due anni in cui la sceneggiatura si è modificata diverse volte fino a quando non ha preso la strada a lei più congeniale. Mi sono data completamente, mi sono fidata di lei soprattutto nelle scene più difficili e rischiose in una storia per immagini e emozioni.
La riscoperta della sessualità in età matura non ha mai avuto molto spazio nel nostro cinema. Come hai trovato quel mondo fatto di sex toys e riconquista del piacere femminile?
K. C.: Ho conosciuto quel mondo grazie a mia madre e ad un oggetto trovato da mio fratello a casa nostra, la curiosità era tanta e all'inizio eravamo sconvolti. Qui racconto il silenzio di una donna, la sua chiusura totale alla vita e gli oggetti mi sembravano un modo delicato per farlo, mi hanno aiutato a scoprire il corpo femminile. Non è scontato che una donna di sessanta anni ci giochi, spesso vengono visti in maniera pornografica, invece ho avuto la fortuna di conoscere un gruppo di donne che attraverso la vendite di sex toys si occupa della riscoperta della femminilità a tutte le età. Si può iniziare ad amare anche a sessanta anni, la vita è una continua esplorazione e scoperta: quando invecchi non è tutto finito, ma puoi baciare, amare, guardare il mondo con lo sguardo di una ragazzina e innamorarti. Non è stato facile raccontarlo attraverso il lutto di una donna, ho provato a farlo con uno sguardo tutto mio.
L. S.: Uno dei motivi per cui ho accettato questo ruolo, oltre al mio percorso di donna femminista, era la scommessa per nulla semplice di mettere vicini due mondi fortissimi, due tabù come la morte e il piacere. E raccontarlo in un film, mettendo al centro una donna che ricomincia a vivere, a sorridere e a scoprire i sex toys frequentando il retrobottega di un salone da parrucchiera, è rivoluzionario.
La scena dell'autoerotismo? Come è andata?
L. S.: Aspettavo quella scena al varco, ne abbiamo parlato tanto, Katja però mi aveva rassicurato. Avevo paura, ma sono una temeraria e penso si debba sempre approfittare di certe occasioni per esplorare fino in fondo personaggi come questo, sono occasioni speciali per mostrare cose molto intime di te, che nella vita saresti più reticente a far vedere.
Il superamento dei tabù e il tema della frontiera
Se a proporti questo film fosse stato un uomo?
L. S.: Non credo che un uomo mi avrebbe mai proposto un film simile. Lo sguardo di Katja è profondamente femminile e il mondo ne ha bisogno, perché quello che viviamo è solo una metà ed è così anche nel cinema. Ho sempre trovato interessante provocare il pubblico su argomenti come il sesso, perché smuovi un rimosso fondamentale per capire noi stesse e la relazione con le altre donne e con gli uomini.
K. C.: Sempre più donne hanno bisogno di parlare della riscoperta del proprio corpo, mi investono di domande, si emozionano, mi si avvicinano e vengono a parlarmi anche in maniera un po' pudica. Si parla molto di autoerotismo maschile, è accettato e vissuto come naturale, al contrario di quello femminile: non se ne discute, non esiste, invece c'è ed è importante per raggiungere una consapevolezza e una certa conoscenza del proprio corpo. Se non ti conosci non ti ami e non riesci a concedere piacere neanche all'altro. Persiste una visione del piacere femminile molto chiusa e cattolica: non è esplorata, non è vissuta, ma la colpa è anche delle donne che non ne parlano, come fosse una cosa vergognosa. Ci sono dei muri, dei confini molto forti e questo è uno di quelli che volevo superare raccontando la storia di Rosa.
Che è anche un film sul confine, non solo geografico. Ogni personaggio attraversa la propria frontiera...
K. C.: Sono cresciuta sul confine, sono slovena di Trieste e negli anni precedenti al muro di Berlino non era bello vivere quella frontiera, per questo ho sempre voluto superarla e andare oltre. Non è un caso che il film sia pieno di sconfinamenti: c'è il confine tra lui e lei, tra la vita e la morte, tra la sessualità maschile e femminile che va oltre i pregiudizi, c'è un continuo andare oltre su temi mai affrontati, ma c'è anche il confine tra luce e ombra, nei colori e nella casa. Gli spazi esterni raccontano quello intimo, vuoto e pieno di dolore dei personaggi, quasi delle ombre che si rifugiano nella morte e fuggono a se stessi.
L. S.: Spero che il cinema italiano possa sperimentare, osare e smettere di fare tremila commedie corali. Viviamo in un mondo da sempre pensato e governato da uomini e per gli uomini, ma siamo fatti di due, non c'è un pensiero univoco.