In questa settima edizione del Festival del Film di Roma, la nuova sezione CineMaxxi è stata introdotta da un singolare film a episodi come Centro Historico. Il film diretto da Aki Kaurismaki, Pedro Costa, Victor Erice e Manoel De Oliveira è pensato in effetti come tributo alla città di Giumaraes, centro originatore della nazione portoghese ed eletto Capitale Europea della Cultura per il 2012; ma, guardandola bene, l'opera dei quattro maestri europei ha ben poco del film-cartolina, e molto di un'opera che racconta storie personali con un riflesso, una risonanza nel collettivo. Un collettivo che può essere la vita di una stradina secondaria in cui è sito un ristorante poco frequentato, i fantasmi di una guerra civile ancora troppo vicina, una foto di una fabbrica ormai chiusa o i monumenti di una storia che a tutt'oggi "parla" a chi vuole scoprirla.
Del film e della sua genesi hanno parlato, nella conferenza stampa svoltasi all'Auditorium, Kaurismaki, Costa ed Erige, spaziando anche sul significato storico del luogo e più in particolare sul loro approccio ai singoli episodi.
Erice, lei ha cominciato coi film di finzione, ma poi ha avuto successo come documentarista. Nel suo episodio, fa rivivere in modo magistrale l'immagine di quella mensa. Come mai la scelta, per il suo segmento, di basare tutto su una serie di interviste in primo piano? Victor Erice: Io non differenzio in modo sostanziale documentario e finzione. Faccio invece una differenza netta tra reportage televisivi e documentari. Tutti i film sono di fiction: il cinema, come dice il maestro De Oliveira, è il fantasma della realtà. Ho voluto, nel mio segmento, dare lo stesso valore, lo stesso trattamento formale, a tutte le persone intervistate.
Il film si chiama Centro Historico, e si potrebbe pensare dal titolo a un approccio turistico. Ma pare che i registi abbiano trattato il tema da un'ottica particolare, con un modo diverso di vedere questa realtà. Come avete messo a fuoco il progetto? Pedro Costa: Quando mi hanno invitato a fare il film, ho detto che non avevo molta voglia di girare a Giumaraes: non perché sia un territorio "nemico", ma perché in genere ho sempre lavorato nel territorio di Lisbona. Ho scelto un ascensore come set principale proprio per evitare questo effetto "turistico".Kaurismaki, lei ha scelto un set particolare per raccontare il centro storico di una città turistica: un piccolo ristorante. Che messaggio voleva dare? Aki Kaurismaki: Ovviamente il ristorante non aveva clienti, quindi non si può parlare di turismo. I ho partecipato a questo progetto grazie a queste persone che mi hanno incastrato: in ogni famiglia c'è qualcuno che ha il ruolo del buffone, e quello spetta sempre a me! In quei 15 minuti ho messo tutte le mie conoscenze sul Portogallo.
Erice, perché proprio la scelta di quella fabbrica abbandonata? Victor Erice: Conoscevo bene il Portogallo ma non Giumaraes, quindi ho chiesto di vedere il paesaggio tessile, che è stata la prima fonte di reddito per questa regione. Quella fabbrica fu la nave ammiraglia dello sviluppo per tutta la regione, fin dal XIX secolo. Il motivo più importante è stato però l'aver trovato una fotografia della mensa: c'erano questi due elementi, da una parte la fabbrica ormai abbandonata, e dall'altra la mensa coi suoi volti. Poi ho voluto conoscere gli ex lavoratori della fabbrica, ci ho parlato e ho registrato i loro ricordi. All'inizio l'episodio doveva durare 30 minuti, poi siamo arrivati a 35: il materiale di fondo è costituito da testimonianze dirette, tipiche del reportage; io le ho trasformate, cosa fondamentale, in una sorta di oralità spontanea. Ho lavorato con gli ex operai per la scrittura del testo: abbiamo scritto frammenti, spezzoni delle loro vite. Poi ho anche provato con loro, come si prova sempre con gli attori. Non era un film su di loro, ma un film con loro.
Il film realizzato in un luogo molto connotato, ma in ogni singolo episodio avete messo parte del vostro universo personale. Esiste quindi uno stile europeo, una sorta di polifonia? Victor Erice: Non voglio essere presuntuoso, ma credo che noi apparteniamo a una famiglia di filmakers europei, che va al di là delle frontiere dei singoli paesi. Forse ci accomuna il senso di solitudine che esprimiamo nelle nostre storie: ci sentiamo un po' come una famiglia di cineasti, e siamo accomunati anche da un interesse "crepuscolare" per il cinema.Costa, come mai ha intitolato il suo segmento Sweet Exorcist, come l'omonimo disco di Curtis Mayfield? Pedro Costa: Lui non è solo un musicista, ma un grandissimo poeta americano. Forse la gente capisce poco le sue parole, ma io ho voluto in qualche modo trasporle, nel dialogo del mio episodio. Ho voluto quasi fare un remake cinematografico del suo disco.